MASSIMILIANO MELILLI
FRONTE NORD EST

FRONTE NORD EST
Prezzo Fiera 12,80
Prezzo fiera 12,80 CRONACHE DALLA GRANDE GUERRA

La Grande Guerra: dieci milioni di morti di cui almeno uno in Italia. Le testimonianze, le emozioni, le bombe, la paura, la fame, la miseria, la speranza. Si avventura in questi territori Massimiliano Melilli, e si muove con la tecnica del cronista e lo stile del narratore. Cos’è stata la Grande Guerra per il Nord Est? Come sono cambiati il territorio e la società dopo la Prima Guerra Mondiale? Per comprenderlo Melilli offre ai lettori un itinerario, che è anche il racconto di come e perché l’Italia sia diventata Nazione.

Con illustrazioni

Primo capitolo

PREFAZIONE

Una lunga camminata nelle tenebre
“Mollate il branco. Seguite Orwell. Siate provocatori. E già che cito Orwell, prendete Stalin. Tutti lo definiscono un mostro, e hanno ragione. Quindi voi dissentite. Trovate qualcosa, una qualsiasi cosa da dire in sua difesa. Oggi la storia non ruota intorno alle convinzioni. È performance. È spettacolo. E quando non lo è, fate in modo che lo diventi”. Comincia così l’apologia della “nuova” storiografia, graffiante e dissennata, amica dell’assurdo, che Alan Bennett mette in bocca al professor Irwin, protagonista di uno dei suoi libri più riusciti, Gli studenti di storia. Sembra un’esagerazione, ma non lo è. Chi legge e scrive di storia sa che spesso a catturare l’interesse del pubblico e degli esperti è più la seduzione del pamphlet, portata fino al paradosso, che la ricerca della verità, condotta con fatica e rigore. Così, ad esempio, il processo unitario che pur tra mille contraddizioni portò in quarant’anni il 30% della popolazione meridionale – uomini e donne – fuori dall’analfabetismo è diventato per qualcuno nient’altro che lo sfruttamento imperialista piemontese ai danni delle povere masse del Mezzogiorno, strappate al buongoverno borbonico; e la classe dirigente risorgimentale, pur difettosa e ovviamente perfettibile, è dipinta come un assemblaggio di corrotti, fiacchi politicanti, massoni e banchieri. Per non parlare della Grande Guerra, della quale, come ha ricordato Mario
Isnenghi, si persiste a fornire una lettura che inforca esclusivamente le lenti dell’oggi, dei nostri tempi fortunatamente pacifisti, per vederla solo come una “inutile strage”, citando Benedetto XV, e non anche quale una tremenda ma fondamentale, persino epica, vicenda nazionale. Come se gli ideali – giusti o sbagliati – che accesero i cuori di milioni di italiani allora non contassero niente, nel formarsi del racconto storico, solo perché non coincidono con quelli – giusti o sbagliati – della sensibilità contemporanea. Corsi e ricorsi della storiografia. Tutto ciò è ben presente a Massimiliano Melilli quando si accosta, come fa nelle pagine di questo libro, alla narrazione dei fatti fondamentali del primo conflitto mondiale, e in particolare alle sue declinazioni che riguardano la regione d’Italia che ne fu il teatro, il Nordest. Lo fa con passo esperto e competente, e con un’accuratezza e una vividezza che conquistano alla lettura senza bisogno degli effetti speciali ricordati sopra, cioè del gusto per la polemica a tutti costi. “A volte il tempo è come una forma di risarcimento”, scrive non a caso Melilli. Lo si vede bene nel capitolo dedicato a Caporetto, dove sulla bilancia del giudizio storico rispetto alle responsabilità della peggiore sconfitta militare che l’Italia conobbe dai tempi dell’unificazione l’autore mette con circospezione e cautela tutti i pesi, attraverso le versioni contrastanti di Cadorna, Capello, Badoglio, dei vertici dell’esercito, e soprattutto citando gli atti di isolato ma frequente eroismo dei soldati. E pone l’accento sul cambio di passo, dopo la rotta del fronte, nella mentalità delle forze armate, con l’avvicendamento tra Cadorna e Diaz ma anche tra la guerra campale ottocentesca e quella nuova, nutrita dei primi  rudimentali strumenti della propaganda e dell’ideologia. Ma lo si rintraccia anche nella passione documentaria della parte del libro dedicata a Mussolini, allo scivolamento apparentemente quasi meccanico che compie con lui un pezzo della sinistra italiana, dall’internazionalismo operaio verso la retorica della guerra e della volontà di potenza: quella scelta di campo destinata a cambiare la storia del Novecento e presentata dall’allora direttore dell’“Avanti!” come nient’altro che una resa alla realtà oggettiva dei fatti. O nella puntuale descrizione fatta dall’autore delle condi zioni di vita dei veneti: degli ultimi, dei “dannati della terra”, prima e durante il conflitto, nell’incontro non solo con la fame e l’estrema indigenza (si vedano, per il Polesine, le cronache della miseria di Ernesto Rossi), ma anche, per quelle porzioni di territorio travolte dall’avanzata austroungarica dell’autunno 1917, con le violenze e gli stupri di guerra. Un Veneto che vive in frammenti di poesia come quella di Berto Barbarani: “Porca Italia” i bastiema: “andemo via!” (...). Dalla bestemmia all’intervento: l’ostilità tradizionale, mai sopita, un po’ anarchica e un po’ contadina, del Veneto verso le strutture dello Stato è tutta qui. 
Ancora, è un utile promemoria la rassegna della disposizione delle forze in campo lungo il fronte, dei varchi e punti deboli della difesa italiana, dalle Alpi tridentine alla Carnia, passando per le Dolomiti. E qui vale la pena ricordare come l’opera di fortificazione fosse cominciata molto prima dell’affacciarsi delle ostilità, in tempi quasi insospettabili. Chiunque transiti tra il passo di Valparola ed il Falzarego, sopra Cortina, vedrà l’imponente edificio del Forte Tre Sassi / In Tra I Sass, costruito dagli austriaci tra il 1897 e il 1901: quasi vent’anni prima della guerra, sotto l’apparente dolcezza della Belle Époque, dei romanzi che Edith Wharton e Thomas Mann ambientavano in un universo alberghiero alpino estremamente cosmopolita e interconnesso, covavano la diffidenza e il sospetto tra le nazionalità. Il meccanismo – sebbene imprevedibile negli esiti – era già scattato. Quasi in mezzo al libro di Melilli, per una scelta esplicita dell’autore, scorre il Piave, il fiume (con il Tevere) a più alto contenuto simbolico per la retorica nazionale italiana, “confine tra due fasi della guerra e tra due modi di combatterla”, come ha scritto Fortunato Minniti, ma anche grande ispiratore della più popolare (e più bella) canzone patriottica italiana del Novecento. Un canto che un politico autonomista qualche anno fa reclamò come nuovo inno nazionale, in nome dei valori “nordici”, in antitesi a quello di Mameli, troppo “romano”: dimenticandosi che l’aveva composto un napoletano (Ermete Giovanni Gaeta, sotto lo pseudonimo di E. A. Mario), riprendendo una frase che avrebbe pronunciato di fronte al re, come sottolinea Melilli, un giovane fante ordinario veneto, Luigi Saccaro. La questione del primo contatto offerto dalla guerra tra Italie estremamente differenti è, comunque, tutt’altro che definita, è ricca di sfumature e di ombre: come ricorda l’autore, più che di un incontro siamo in presenza di un incontro-scontro. Ma “è proprio in questo incontro-scontro che si sviluppano le radici di un sentire comune, un senso di appartenenza a qualcosa di grande, molto grande che si sta formando: l’idea di nazione”. Su tutto, ciò, comunque – a prescindere da come la si pensi sul mito della Grande guerra, dalle mode, dalle sue esaltazioni e poi demolizioni ideologiche – dominano i dati, nudi e impressionanti, di quel conflitto. 650.000 morti militari e quasi altrettante vittime civili, 1.100.000 soldati arruolati, ricorda preziosamente Melilli, su una popolazione di poco più di 35 milioni di abitanti: un maschio su diciotto, una proporzione immensa per la nostra sensibilità, a soli cent’anni di distanza. Come ha mostrato Steven Pinker in The  Better Angels Of Our Nature, la storia che ci precede – tutta la storia  dietro di noi – è da questo punto di vista una lunga camminata nelle tenebre.
Francesco Chiamulera

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