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Edizioni Il Fiorino

Massimo Giacchero
IL LONGOBARDO ERRANTE...

IL LONGOBARDO ERRANTE...
Prezzo Fiera 10,00
Prezzo fiera 10,00 Cronache di Rodan, Duca di Mutina (vedi video trailer)

Anno domini 575 d.C.L’epopea sfortunata del duca Rodan, nobile longobardo, in fuga attraverso territori ostili prima in Gallia, contro i Franchi, poi in Italia divisa tra territori bizantini e duchi traditori.Tra mille difficoltà, battaglie e agguati arriverà infine....

Primo capitolo

CAPITOLO I

575 d.C., Italia, territori del nord-ovest.

Uscimmo dalla foresta di pioppi e faggi nel tardo pomeriggio di un autunno stranamente caldo e umido, dopo un inseguimento attraverso una zona paludosa che sembrava non finire mai, a sud tra il ducato di Asti e la strada verso il grande fiume Po che divide la vasta pianura. Il sole bucava a malapena il muro di nebbia che da giorni ci sovrastava come un mantello calato su di noi. Da quando riuscii a scappare alla trappola tesa dai franchi, con un pugno di uomini ci demmo alla fuga tornando a nord per rifugiarci nelle terre del duca di Asti amico di vecchia data; fin dai tempi del grande re Audoino padre del nostro caro re Alboino, ucciso a tradimento da Rosmunda e dal suo viscido amante Elmichi, con la complicità di qualche duca agra (traditore) e dai bizantini. Ricordo quando abitavamo le terre della Pannonia, eravamo bambini, giocavamo alla guerra con bastoni e ci picchiavamo a sangue fino a sera simulando le gesta dei nostri padri, nelle grandi battaglie raccontate attorno al fuoco nelle sere d’inverno.

In Pannonia, tra i monti, le grandi foreste e le sterminate praterie, cogliemmo grandi vittorie contro Eruli, Goti e Gepidi. Saremmo stati un grande popolo unito se non fossimo stati soggiogati sotto l’artiglio dell’imperatore di Bisanzio che ci metteva uno contro l’altro. Dopo la morte di re Audoino, salito il figlio Alboino al comando, il nostro nuovo re cambiò le situazioni politiche. Ci fece vincitori su tutte le genti. Li sconfiggemmo e dominammo  grazie all’alleanza con gli Avari. Anche i bizantini iniziarono a temerci; eravamo il popolo caro a Wotan, gli eletti e nessuno ci avrebbe fermati, questo pensavamo quando la sera ci radunavamo attorno ai fuochi davanti alle nostre tende a festeggiare le vittorie.

Eravamo esausti, sporchi e affamati; fuggivamo da indicibili orrori che avevamo lasciato nelle regioni giù al sud nelle terre dei franchi. Dovevamo arrivare prima possibile dentro ai confini del ducato di Asti per chiedere aiuto. Ci arrivammo come ladri, nascondendoci ad ogni cespuglio, ad ogni anfratto, passando notti a cavallo senza scendere mai, cambiando strada prendendo sentieri sempre più nascosti tornando a volte a fare giri immensi per depistare i franchi che ci inseguivano. Quando finalmente arrivammo alla fortezza che chiamavamo le Chiuse di San Michele vidi il mio amico Ansprando, duca di Asti, che stava sugli spalti con le sue truppe impegnato a difendere la rocca da un contingente franco che si accalcava inutilmente sotto le mura con arcieri e scale. Dovevo agire, pensai all’effetto sorpresa, strinsi le cinghie dell’elmo, sfilai la spada dal fodero e imbracciato lo scudo, mi girai verso i miei uomini sopravvissuti urlando: ”Morte ai cani franchi!”. Spronai il mio cavallo a caricare conficcandogli gli speroni nei fianchi, trascinandomi dietro i miei che urlavano come indemoniati. Gli fummo subito addosso. La sorpresa fu così grande che gli assedianti si dispersero al nostro passaggio e i pochi che resistevano venivano falciati dalle nostre spade o infilzati dalle lance, senza pietà.

Arrivammo così al portone d’entrata, dove, avendoci riconosciuti, aprirono subito e ci fecero entrare. Non ebbi neanche il tempo di scendere dalla cavalcatura che mi sentii chiamare per nome con una grassa risata. Era il duca Ansprando che, con una pacca sulla spalla e un abbraccio, mi confidò che tra tutti i fantasmi non avrebbe mai immaginato di vedere un morto accompagnato da diavoli urlanti aprirsi la strada con tanta audacia. Rodan –pensò- solo lui può essere così pazzo da farlo. Ci abbracciammo, ma nuove urla e suoni d’allarme ci fecero correre subito sugli spalti dove combattemmo tutta la giornata.

Passammo ore sulle torri e sui ballatoi lanciando frecce, giavellotti e pietre, finché alla sera se ne andarono con niente di fatto lasciando ai piedi delle mura morte e desolazione franca. Trascorremmo infatti mesi a dar man forte arroccati a difendere la fortezza che i franchi a tutti i costi volevano ma che mai avrebbero espugnato. Era il passaggio obbligato tra le montagne per iniziare un’invasione nelle terre longobarde da quelle franche; ma finché c’erano le mura delle chiuse di San Michele e noi a trattenerli e a ricacciarli nelle loro terre, i ducati erano al sicuro. A volte riuscivamo a spingerli oltre le valli sino a farli disperdere tra i boschi sulle montagne. A volte ci assalivano e ci tenevano in scacco tra le mura della rocca per giorni e giorni, finché un giorno si ritirarono senza motivo apparente ai più. Venimmo a sapere poi che alla corte era morto il loro sovrano, probabilmente dovettero radunarsi per eleggere il successore del loro re che era morto.

Ad ogni sera Ansprando ed io ci ritiravamo nelle sue stanze poste nel torrione. Dopo che i nostri scudieri ci alleggerivano dal peso dell’armatura e delle armi, ci lavavamo e passavamo il resto della sera a tavola a bere, a mangiare e a ricordare i tempi dell’invasione. Quando conquistammo questa terra dei romei e dei goti che in poco tempo sconfiggemmo e depredammo, dei romei che spogliammo dei loro tesori e delle loro terre. Discutevamo dei franchi che ci minacciavano e delle defezioni imperdonabili che correvano tra le file dei duchi dopo la morte di Alboino.

Il mio amico non si dava pace e accarezzando i suoi fedeli cani da guerra continuava a dire: “Saranno la follia e la presunzione a portarci alla rovina. Dovevamo unirci tutti sotto la guida di un nuovo re forte e potente per contrastare tutte le genti che volevano cacciarci da queste terre. Iniziando dai Bizantini che da Ravenna e dalla pentapoli avanzavano inesorabili con truppe fresche, i franchi da ovest che prezzolati da Bisanzio facevano incursioni su incursioni, tenendo sempre in allarme i ducati, per primo il mio e quello del duca di Torino. Divisi vivremo poco e verremo cancellati dalle memorie e la nuova fede dei cristiani guidati dal Papa, che a poco a poco ci sta dividendo, prima o poi vincerà su di noi e sui nostri dei, già molti si sono convertiti, come te del resto”.

Non risposi, ma sapevo che aveva ragione. Sebbene tutt’ora facessi offerte a Wotan, non mi vergognavo ad entrare in una chiesa o ad emozionarmi ascoltando il sermone di un monaco. Accarezzai il medaglione regalatomi da mia madre e che portavo sempre con me, pensando alle parole di mio padre – ricordati Rodan che se vogliamo dominare queste terre dobbiamo abbracciare e condividere tutte le idee e le religioni -.

Era giunto il momento di ritornare....un giorno, uno dei tanti di attese, alternate ad assedi, presi la decisione di ripartire. Lo comunicai ad Ansprando, dicendo che le mie fare mi davano morto compresa la mia promessa sposa Romilda. Dovevo ritornare da loro e dalle terre conquistate da mio padre e vidimate dal re prima della sua morte. Dopo mille raccomandazioni e altrettanti consigli preparammo le salmerie e mentre montavo a cavallo mi porse un involucro di panno blu legato con una cintura dalle fatture nordiche, avrei detto sassone guardandola meglio e mi disse: “Questa è per te, fanne buon uso e vedrai che ti servirà bene”. Slegai la cintura e aprii il panno: mi ritrovai con una stupenda spada tra le mani. La soppesai e la rimirai, apprezzando le finiture d’argento su bronzo e ottone dell’elsa e il pomolo riccamente finito con sezioni in corno nero, era bellissima. Gli promisi che alla prima occasione l’avrei bagnata con sangue franco.

Ci abbracciammo e ci salutammo. Mi disse che quanto prima avrebbe mandato un messaggero ad avvisare le mie genti, lo ringraziai e ci promettemmo  di correre in reciproco aiuto in caso di bisogno. Lasciammo la fortezza dirigendoci come da consigli, verso le terre di ponente per raggiungere la Tuscia, perché c’erano bande di franchi che mi cercavano, guidate da sporchi agra longobardi, sparsi in tutta la regione. Sapevo che avrei trovato asilo sicuro presso il mio amico Wilfrido duca di Tuscia. Mentre procedevamo in fila nel bosco in un silenzio rotto solo da qualche  animale e dai suoi richiami, pensavo a quanti armati a me fedeli erano caduti difendendomi, laggiù a Marsiglia in quella gola maledetta. Lontano in terre straniere i nostri uomini caddero a centinaia e con loro due duchi valorosi, i miei cari amici Amo e Zabam, senza cerimonie senza sepolture a marcire senza poter ritornare mai più alle loro case, alle loro famiglie, lasciati allo scempio di cani rabbiosi quali erano i franchi, ma li avevamo istigati noi, con i nostri saccheggi e le nostre incursioni, devastando le loro terre e i loro villaggi, depredando tutto quello che potevamo. Entrammo nei loro territori, con tre armate, in tre zone diverse, con la promessa di incontrarci nei territori a sud vicino a Marsiglia. Io Zabam e Amo seminammo morte e dolore; non ce lo perdoneremo mai, ma erano stati gli ordini del re.

Osservavo i miei compagni di viaggio. C’era Mattheus con ancora macchie scure di sangue rappreso sulla brigantina e sull’elmo dall’ultima sortita fuori dalle mura di San Michele; era un Sassone errante da quando incursioni franche massacrarono la sua famiglia e l’intero suo villaggio, scappò con pochi sopravvissuti unendosi al nostro popolo.

Quando lo affidarono alla fara di mio padre era un bambino pieno di odio e di rancore verso i franchi. Crescemmo assieme, ero più grande di lui di qualche anno, ma a lottare e a menar le mani non aveva rivali, più di una volta mi dette del filo da torcere negli allenamenti, vincendone anche alcuni. Una volta adulto si guadagnò il posto nella fara come arimanno nelle nostre scorribande contro i Gepidi, non tornava se il suo scramasax non era bagnato del sangue di qualche nemico. Ciò che lo distingueva era il ghigno che esibiva in ogni occasione: fosse stato uno scontro, un duello o una battaglia. Avanzava sempre ridendo, schernendo e terrorizzando i suoi avversari. Marius e il suo scudiero arrivarono a far parte del nostro popolo dopo che con il nostro re iniziammo a prendere terre e a massacrare pattuglie di bizantini durante l’invasione di questi territori. In questi scontri si racconta che gruppi di soldati bizantini stanchi di essere massacrati e malpagati iniziassero a rompere le fila dell’esercito e a fuggire mettendosi dalla parte del popolo longobardo. Ecco, Marius era uno di questi fuorusciti unitosi all’esercito di mio padre, che lo prese in grande considerazione per coraggio provato più volte sui campi di battaglia. Aveva sempre sguardi persi nelle sue terre d’origine. Marius proveniva dalle terre della lontana e dorata Bisanzio e il suo scudiero Papero era uno schiavo persiano liberato e affidato a lui. Lo chiamò così dopo averlo visto camminare in modo strano: deambulava a destra e a sinistra buttando verso l’esterno gli enormi piedi. Questa andatura era dovuta a ferite alle ginocchia e alle caviglie. Tutti uomini cresciuti nelle leggi dure di un selvaggio muro di scudi o di scontri in battaglie infinite. Solo i migliori e i più fortunati lasciavano gli scontri vivi tra le fila dei nostri guerrieri massacrati dalle lame franche o bizantine sui campi di battaglia.

Torno ancora con la mente ai tempi del mio grande re Alboino, intrepido e temerario. Sfidò a viso aperto l’imperatore d’oriente e trascinò nella più folle avventura il suo popolo con tribù alleate, aggregatesi a lui per bottini favolosi a loro promessi, oltre le terre al di là delle steppe della Pannonia, e per le terre grasse e fertili d‘Italia. Qualcuno mormorava che Alboino avesse fatto un patto con l’imperatore per invadere la provincia chiamata Italia. Altri ancora che fosse stato prezzolato dal grande generale Narsete caduto in disgrazia alla corte di Bisanzio. Alleati con noi c’erano gli Avari, terribili guerrieri, i veloci Unni sui loro cavalli, i forti Bavari ed infine i Gepidi o quello che ne rimaneva dopo la dura sconfitta che il nostro re aveva loro inflitto. Alla fine uccise senza pietà il loro sovrano e ne prese in moglie la figlia Rosmunda, affermandosi come condottiero e capo dei Gepidi e degli invincibili longobardi. Alleate con noi c’erano anche altre genti, altre tribù, gli Ungari, i Sassoni e bande di mercenari sbandati di Goti e romei. Tutti uniti procedemmo sino ai valichi inaccessibili delle Alpi per invadere le terre fertili dei romani. Questo era il piano del nostro re: si accordò con gli Avari per lasciare le terre della Pannonia a loro. Invademmo la provincia che i romei chiamavano Italia e conquistammo paese dopo paese, città dopo città, come un fiume in piena... Prendemmo territori che andavano dal nord fino ai confini con le terre dei Franchi e a sud tutti i territori ancora sotto il potere di Bisanzio, fu una marcia trionfale, eravamo eccitati e vogliosi di conquiste anche noi giovani, ma non era ancora il nostro tempo, il nostro compito era accompagnare la lunga colonna di bestiame, insieme a donne, vecchi e bambini, sorvegliare le salmerie e i carri pieni di viveri e di armi fino a quando un giorno non saremmo stati riconosciuti dai consigli delle fare come uomini dopo aver superato una prova di coraggio ed esser stati premiati con uno scramasax.

Mi destò dai pensieri il mio scudiero che, mandato in avanscoperta, tornò urlando che dei nemici dietro di noi ci stavano raggiungendo. Erano le pattuglie mandate da Aldoprando sporco agra (traditore) alleatosi con Dagoberto generale dal sangue marcio franco che dopo la vittoria sulle nostre truppe nella piana alle porte di Marsiglia, giurò al suo re di sterminarci tutti fino all’ultimo e di portagli la mia testa.

Corremmo a sprone battuto urlando e bestemmiando per tutta la durata del pomeriggio; riuscimmo a seminarli dopo aver guadato un fiume ed esserci inerpicati tra boscaglie e calanchi, finché a sera, esausti, ci fermammo in una radura da cui si dominava quasi tutta la vallata. Come era verde e lussureggiante questa terra dei franchi.

Alla luce tremula di un fuoco di sterpaglia umida ci guardavamo e ci studiavamo. Come potevamo esser scampati solo noi, come potevamo essere solo noi testimoni di una così grande tragedia? Eravamo stati stolti e stupidi, la nostra presunzione non ci fece vedere il pericolo, i franchi si erano organizzati e riuniti in massa fuori dalla loro città; Marsiglia e ci attesero pronti al massacro, scelsero il campo di battaglia, scoprimmo dopo perché.

Specifiche

  • Pagine: 128
  • Isbn: 978-88-7549-613-5
  • Prezzo copertina: 10,00

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