PAUL VALERY
INCANTI

INCANTI
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Non è giusto dire che Paul Valéry non aveva ispirazione: lui stesso dichiarò che il primo verso viene dagli dei il resto è lavoro, come sanno tutti i poeti di questo mondo. Valéry aveva adottato, per la metrica e la rima e il ritmo, i consigli di Boileau: XVII secolo. Il primato del ritmo ritorna regolarmente in sonetti, odi e poemi.  Persino il suo capolavoro, il ”Cimitero marino” nasce da una riflessione sul decasillabo. Valéry monta e smonta tutte le possibili versioni del decasillabo. Invece la “Pizia” nasce da un verso in cui per Valéry è contenuto in nuce tutto il poema. Il classico tra i moderni ritiene la poesia “una festa dell’Intelletto”. Dice Valéry: “Le belle opere sono figlie della loro forma – che nasce prima di esse.”

Introduzione e traduzione di Pierangela Rossi. Testo francese a fronte.

Primo capitolo

Valéry. Il capolavoro
Classico tra i moderni, Paul Valéry con il capolavoro “Incanti” (1922) si distingue da un Supervielle e dal suo verso libero (1922) e dal surrealismo di Breton (1923). Nel panorama letterario degli anni ’20 è un’eccezione. Valéry rispetta in gran parte i principali precetti di Malherbe e Boileau del XVII secolo: hanno fissato i canoni del classicismo in poesia, nella ricerca della misura e dell’armonia. Tutto questo si traduce in una metrica precisa e nel non abbandonare mai la rima. Il repertorio delle rime è completo. La rima ricca: masque con vasque. La rima rara: rocs e focs. La rima leonina: chérir e périr. La rima spezzata: aliments e rayonnement nel verso. Rime annesse: frais a fine verso, Frémir a inizio verso, o ancora le rime ragionevoli rime/lime e le rime equivoche fondate su omonimie chair/cher. Numerosi sono i latinismi. (Ringrazio Marine Wisnieswki per le informazioni attinte qui). Sonetti, Odi e Poemi in allegorie celebrano il lavoro dello spirito e i movimenti dell’anima: Valéry definisce “Incanti” “una festa dell’intelletto”. Inoltre, Valéry fa ricorso a una sintassi da filosofo che dà la parte bella ai determinanti generici, agli infiniti sostantivati, e alle formulazioni gnomiche. Il tutto in una dimensione speculativa della raccolta. “Incanti” partecipa dunque della tradizione del poema filosofico, rinnovatasi nel XIX secolo con Leconte de Lisle (1852), Victor Hugo (1883) e soprattutto Alfred de Vigny (1864), che scriveva valerianamente sulla poesia: “Diamante senza rivali, che i tuoi fuochi illuminino / I passi lenti e tardivi dell’umana Ragione”. Poemi filosofici, del resto, inapprezzati dall’autore di “Incanti”.
Valéry si stupiva che la maggior parte dei poeti francesi “ignori tutta l’epica e la patetica dell’intelletto”. E al crepuscolo della sua vita: “La mia convinzione, dalla giovinezza, fu che, nella fase più viva della ricerca intellettuale, non ci sono differenze, altro che nominali, tra le manovre interiori di un artista o poeta e quelle d’un sapiente”. E tuttavia rispetto ai poemi filosofici Valéry con Mallarmé rivendica la specificità essenziale del lavoro poetico, che non deve confondersi con l’”universale reportage” della prosa.

Dobbiamo dunque prendere in considerazione l’autodefinizione di Valéry (in una lettera a Gide) come “il luogo geometrico di tutte le contraddizioni”? Infatti Valéry rinnova il genere del poema filosofico: la forma poetica non è solo traversata da un pensiero: ne è il dispiegamento necessario. E tuttavia “la voce del poema” è lirica come in un romantico. Stante il fatto che sull’onda di Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, Valéry va contro le effusioni dell’io e sceglie un soggetto impersonale, un lirismo critico, dunque. Dove l’io diventa proteiforme: è Narciso (il suo mito) come la Pizia o il Serpente e persino le colonne, il mentitore, o l’ape. “Aurora” a inizio raccolta e “Palma” alla fine illustrano molto bene questo modo di procedere. Valéry accosta musica e poesia perché la musica “con tutti i suoi rapporti e le sue proporzioni” è un quadro rigoroso per il pensiero. A questo proposito, va rimarcato che in Valéry le opere nascevano dal primato del ritmo, per esempio dalla musica di un decasillabo o di un ottonario (si veda più avanti la genesi del “Cimitero marino”).
“Incanti” inoltre deve molto all’architettura, amata da Valéry fin dalla lettura di Viollet-le-Duc. Valéry tenterà nel 1931 di associare poesia, musica, architettura, danza nel melodramma “Amphion”, con Arthur Honegger e Isadora Duncan.
I prodromi: Valéry scriveva versi fin dall’adolescenza ma una delusione sentimentale divenuta esistenziale lo porta nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892 (ch’egli chiamerà “Notte di Genova”), dal luogo, a decidere di non scrivere mai più poesia. Decisione, come si sa, temporanea: rompe il silenzio con “La Giovane Parca” nel 1917. “Incanti”, composto in “uno stato di virtuosità acuta” dopo “quattro anni di lavoro assiduo”, esce appunto nel 1922, e i versi “antichi” solo nel 1929, su pressione di Gallimard. I poemi che compongono “Incanti” sono nati in maniera autonoma, benché metapoietici, tra il 1915 e il 1922, prima pubblicati su riviste. Nel 1929 “Incanti” lascia “Aria di Semiramide” all’”Album dei versi antichi”. Un ‘edizione del ’42 aggiunge l’epigrafe “Deducere carmen”.
“Incanti” nel 1922 è preceduta da centinaia di documenti manoscritti e da numerose annotazioni nei “Quaderni”: come se si andasse a tentoni. Le dediche dei poemi non sono anodine: Valéry aveva scambi interessanti negli incontri con gli amici. La genesi laboriosa è attestata anche dai continui cambiamenti dei titoli – “le belle opere – dice il poeta – sono figlie delle loro forme, che nascono prima di esse”. Inoltre in “Incanti” i termini evocanti la poesia sono frequenti: parole, canto, oracolo, incantamenti, incanto, incanti.
“Gli dei – dice Valéry – graziosamente, ci danno per niente il primo verso; ma sta a noi di predisporre il secondo, che deve consonare con l’altro, e non essere indegno del figlio maggiore soprannaturale”

Il cimitero marino
La genesi del “Cimitero marino” rende conto, in Valéry, della primazia del ritmo, che si sarebbe imposto all’autore prima di ogni contenuto: “Non fu dapprima per me che una figura ritmica vuota o riempita di sillabe vane che mi venne a ossessionare per qualche tempo. ‘Il Cimitero marino’ è cominciato in me per un certo ritmo, che è quello del verso francese di dieci sillabe, tronco in 4 e 6. Io non avevo ancora alcuna idea per riempire questa forma”. I manoscritti ne serbano la traccia con diverse equivalenze di cifre come per esaurire le possiblità ritmiche del decasillabo: “10=5+5=6+4=4+6=4+4+2”. Il poema “progressivo” conosce più di dieci versioni differenti dal 1916 fino al 1922. (Analogamente, la Pizia, racconta Gide, è uscita tutta intera da un solo verso: Pallida, profondamente morsa).
Probabilmente il decasillabo si è poi riempito del mare che vedeva Valéry da bambino e da adolescente, a cui voleva consacrare il suo lavoro di adulto.
Scrive Beniamino Dal Fabbro, traduttore di “Incanti” nel 1942: “I motivi lirici, ideologici e culturali che variamente si alternano e si sovrappongono nel libro di ‘Charmes’ ritroviamo adunati nel ‘Cimitière marin’, in un canto altissimo e modulato con fervore affatto poetico. Qui la morte e la vita elementarmente si contrappongono, traverso la foresta dei simboli e delle allusioni, qui la poesia traverso le regioni astratte giunge a toccare nel doloroso cuore della sorte umana. La terra coi suoi morti invisibili e il mare coi suoi meridiani splendori stanno di fronte opposti nella parola del poeta”.
Infine, se non abbiamo parlato di tutti i sonetti, le odi e i poemi di “Incanti” è perché con Mallarmé pensiamo che il simbolo, per essere gustato, vada svelato a poco a poco.

 

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