Giovanna Strano
La Diva Simonetta

La Diva Simonetta
Prezzo Fiera 14,00
Prezzo fiera 14,00 La sans par

Il romanzo riporta in luce una storia poco conosciuta, celata nelle opere d’arte del ‘400 custodite alla Galleria degli Uffizi di Firenze, eppure molto attuale perché richiama una vicenda che coinvolge direttamente una giovane donna, preda della cupidigia di signorotti del tempo. La tavola de La Primavera ne fa da padrona, ponendosi sullo sfondo di tutto l’intreccio che narra la storia, poco conosciuta, della splendida Simonetta Cattaneo Vespucci, immortalata nelle opere di Sandro Botticelli, del Ghirlandaio, di Benozzo Gozzoli e altri maestri.

La bellissima Simonetta diventa, attraverso i tempi, una musa immortale di bellezza. Lo scenario è la Firenze rinascimentale della seconda metà del ‘400, quella di Lorenzo de’ Medici, un’epoca storica singolare per la ricchezza culturale e l’effervescenza politica che connotano la fioritura dei Comuni e delle Signorie.

L’esuberanza artistica della società del tempo fa da coronamento a una storia vera, nascosta nei documenti del periodo sepolti in archivi e biblioteche, e celata in molte opere d’arte e nei componimenti letterari dei cantori del tempo, come Agnolo Poliziano, Tommaso Sardi, Bernando Pulci e lo stesso Lorenzo il Magnifico.

Simonetta Cattaneo è al centro della società fiorentina del tempo, amata da Giuliano e da Lorenzo de’ Medici, ma anche da altri personaggi come Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e dallo stesso Botticelli, la cui figura emerge nitida nel romanzo, connotata da una personalità poliedrica e frizzante.

Simonetta è la musa ispiratrice del maestro Botticelli, al punto che il pittore esprimerà il desiderio di essere sepolto ai suoi piedi. E proprio l’avvenenza della giovane ne costituirà anche motivo di sventura, in quanto la renderà preda della malvagità e della cupidigia umana. Simonetta morirà nel 1476 all'età di soli ventitré anni.

l lavoro di elaborazione è stato supportato da ricerche approfondite, svolte con profondo coinvolgimento dall'autrice nei luoghi che fanno da scenario al romanzo e attraverso i testi storici che documentano i fatti accaduti.

Gli artisti del tempo restituiscono al mondo una figura destinata a divenire immortale attraverso i tempi; per tutti noi resterà in eterno la sans par.

Primo capitolo

I
“Venere che le grazie la fioriscono, dinotando la Primavera,
le quali da lui con grazia si veggono espresse”
Giorgio Vasari

 


Ma quando arrivano?
Quest’attesa inizia a farsi pesante… il maestro sta esagerando.
Che si stia prendendo gioco della mia buonafede?
Comincio a essere stanco. Ha rinviato la consegna di mese
in mese e ora è passato più di un anno da quando ha annunciato
che stava per completare l’opera. Poi, due settimane
fa, mi ha fatto recapitare un biglietto con su scritto:
Illustrissimo signore Lorenzo di Pierfrancesco
Mio amabile estimatore nonché benefattore
Con la presente annuncio il prossimo conferimento dell’opera
da Voi commissionata, frutto dei nostri lunghi studi e
confronti sulle ragioni intrinseche alla sua elaborazione.
Desidero presentarvela nella giusta allocazione, Vi prego
pertanto di far apporre dalle Vostre maestranze cinque rampini
di forte tenuta nella parete individuata, a distanza esatta
di cinquantadue centimetri l’uno dall’altro, in perfetto asse
parallelo con il pavimento a un’altezza di trecentoventitré centimetri.
Vostro umile servitore
Sandro Botticelli.
E così avevo fatto. Già l’indomani due mastri erano venuti a
predisporre il tutto nella parete della sala a pianterreno, che
si presenta a me ancora spoglia. Unico elemento visivo resta
il divano rosso rubino scuro, di un tessuto decorato con
una miriade di fiammelle dorate discendenti come avevo
voluto io, riprendendo la simbologia araldica che desidero
mi rappresenti: le fiamme con le quali è stato martirizzato
San Lorenzo di cui porto il nome. Le stesse fiammelle che,
come prescritto al maestro Botticelli, adorneranno l’abito di
uno dei personaggi della tavola che attendo da un momento
all’altro nella mia casa di Via Larga.
Un dipinto lungo più di tre metri. So come il maestro
sia ben capace di superare se stesso, eppure non pensavo
arrivasse a tanto.
Ma poi perché mi ha fatto attendere in modo smisurato,
sono già passati quasi due anni da quando gli ho commissionato
l’opera. Ricordo come fosse oggi quel 22 novembre
1485, quando la sentenza arbitrale di Bartolomeo Scala mi
aveva dato ragione, prescrivendo al mio cugino altolocato
di restituire il maltolto: Lorenzo detto Il Magnifico! E perché
non il grandissimo… l’eccelso… il sublime. Certamente
chiunque altro avrebbe fatto anche meglio di lui, chiunque
avesse avuto la sua scaltrezza e mancanza di qualsiasi dignità.
In verità il peccato originale risaliva all’epoca di mio
nonno, messere Lorenzo e di suo fratello Cosimo, figli di
Giovanni di Bicci. In una vicenda molto dolorosa per tutta
la famiglia, mio nonno Lorenzo era morto prematuramente
in circostanze misteriose, di cui si sono avuti solo racconti
frammentari. Il figlio di Lorenzo era mio padre Pierfrancesco
che a quel tempo era ancora molto piccolo, così Cosimo
era stato incaricato di controllare il patrimonio di tutta la
famiglia, subentrando all’improvvisa mancanza del fratello.
Tutto ciò in buona fede, sempre per il fine supremo di
portare avanti la potenza dei Medici nella città di Firenze.
Ma col passare del tempo tale situazione si è incancrenita
nuocendo ai discendenti di Lorenzo il Vecchio, ossia mio
padre e noi figli che non abbiamo più potuto godere dell’autonomia
finanziaria che ci spettava.
Anno dopo anno si è arrivati alla nostra epoca, nella
quale il cugino Lorenzo, succeduto a Piero, figlio di Cosimo,
ha amministrato i miei beni per un lungo periodo,
escludendo qualunque possibilità di poter intraprendere la
mia strada, con dignità come ho sempre chiesto.
Mio padre Pierfrancesco aveva tentato con tutte le forze
di riacquisire ciò che gli competeva dalla famiglia, riuscendo
anche a ottenere riscatto attraverso il ricorso a un
giudice esterno ma, morendo, aveva lasciato i propri figli
ancora minori nelle mani di quell’aguzzino e usuraio, che si
approfittava delle disgrazie della gente per fare la sua fortuna,
senza guardare in faccia nessuno, neanche il suo stesso
sangue.
Non potevo che considerare falso ogni suo atteggiamento
di protezione, con la scusa di fare i nostri interessi in
quanto ancora eravamo dei bambini. Difatti, alla morte del
mio genitore io avevo solo tredici anni e mio fratello nove;
ci aveva vietato ogni minima opportunità di recuperare la
gestione dei nostri averi e tutto ciò in modo palese, susci-
tando reazioni da parte di persone di cultura vicine alla
famiglia dei Medici. Lui non aveva voluto sentire ragioni;
si era sempre rifiutato di consegnare la parte di patrimonio
che competeva agli eredi legittimi, adolescenti, e approfittava
di tale situazione per servirsene e far valere i propri
interessi personali.
Di conseguenza avevamo dovuto dare in prestito tutto
il nostro capitale al cugino Lorenzo; fummo costretti
in quanto se non lo avessimo fatto lo avrebbe disposto lui
d’autorità, quale nostro tutore legale. Disorientati, ancora
credendo di poter contare sull’aiuto della famiglia che pensavamo
non ci avrebbe abbandonati, abbiamo chiesto a Lorenzo
di darci qualche giorno di tempo per prelevare un po’
di danaro dai nostri conti al fine di far fronte alle esigenze
che potevano venire da alcuni affari che pensavamo di intraprendere.
Eppure lo aveva negato.
Qualche anno fa, nel 1484, mi trovai addirittura in una
situazione così incresciosa che mi sentii perduto: date le ristrettezze
finanziarie e l’insolvenza fui esautorato dall’ufficio
catastale, con grande risentimento e forte vergogna che
provavo, non tanto per il mio operato ma per quello della
famiglia di cui portavo il nome.
Abbandonata ogni ritrosia, per dovere anche verso la famiglia
che stavo componendo, avevo richiesto l’intervento
di un arbitro esterno che potesse agire dove io e i miei avi
non eravamo riusciti. E tutto ciò era avvenuto, in considerazione
che a questo mondo ancora esiste la giustizia e il
diritto; ho fiducia che nella società in cui vivo ci potrà essere
un posto per persone di buona volontà, oneste, che vogliono
continuare a credere che l’impegno e il lavoro possano essere
riconosciuti e gratificati.
La sentenza arbitrale del 22 novembre ci aveva dato ragione.
Lorenzo il Magnifico doveva pagare il suo debito
verso i cugini del ramo collaterale della famiglia. Quando
ciò avvenne quasi non credevo alle orecchie ascoltando le
parole di Bartolomeo Scala che suggellavano il trionfo della
giustizia:
«Con questa sentenza si riconosce che messere Lorenzo il
Magnifico de’ Medici, fino alla data odierna considerato tutore
legale dei cugini Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco,
a tutt’oggi ha gestito indebitamente il patrimonio di questi
ultimi nuocendo agli interessi legittimi di godimento dei
propri diritti e di investimento del patrimonio di spettanza,
impedendo loro qualsiasi possibilità di incremento del capitale.
Per tali motivazioni Lorenzo il Magnifico è condannato,
con tutti gli atti conseguenti alla presente sentenza
arbitrale, a risarcire i cugini Medici del ramo fu Pierfrancesco
delle risultanze di tale gestione indebita, di una cifra
stimata in trentamila ducati».
Al suono di quelle parole una vampa mi salì in viso, dallo
stomaco, e non potei trattenere due lacrime silenziose
scendermi tra le mani, mentre nell’aula gremita del tribunale
un forte brusio si levò dalla gente che si era accalcata
per udire la sentenza.
Il Giudice aveva sbattuto pesantemente il martelletto
di legno sulla piastra per richiamare l’uditorio all’ordine e,
schiaritasi la voce, aveva continuato:
«Essendo stato accertato che il soccombente Lorenzo de’
Medici, allo stato attuale, non possiede la liquidità necessaria
a risarcire e a reinfondere ai cugini Lorenzo e Giovanni
di Pierfrancesco un capitale corrispondente a quanto di diritto
dei ricorrenti, il signore Lorenzo de’ Medici è condannato
a cedere loro la proprietà di sessantasei mulini, dodici
fattorie e quattro ville in Mugello» messere Scala alzò lo
sguardo verso il pubblico sgomento, inarcando un sopracciglio
in segno di velato dissenso «compresa la villa Medici
di Cafaggiolo. In curia placuit!» batté ancora il martelletto,
guardando prima me e poi mio cugino impietrito. Si alzò di
scatto lasciando la sala.
Lorenzo rimase seduto poggiando le spalle all’alto schienale
di legno. I nostri sguardi si incrociarono un istante,
ma lui subito abbassò gli occhi fissando il banco scuro. Non
provavo alcun sentimento di rivalsa, non avevo mai voluto
vendicarmi o umiliare mio cugino, desideravo solo avere ciò
che mi toccava di diritto, ciò che mio nonno e mio padre
avrebbero voluto avessi io.
Nelle prime file vi erano gli esponenti delle famiglie più
in vista di Firenze, benestanti, mercanti, rappresentanti di
casate blasonate, e in fondo altra gente del popolo, maestranze
e curiosi delle più disparate provenienze. In città ultimamente
si era parlato solo di questo, in tutti gli ambienti,
ognuno diceva la sua e faceva previsioni sulla possibile
decisione che potesse venire dal tribunale. Anche nei circoli
più colti il dibattito si era infervorato, seppur in modo velato
e cercando di non urtare la suscettibilità di mio cugino
Lorenzo che, nel bene o nel male, rappresentava il potere
più forte della città.
Persino il saggio Marsilio Ficino mi aveva scritto una
lettera nell’ottobre del 1481, esortandomi con parole imploranti
a essere umile e a non lacerare la famiglia Medici con
tale dissidio che, a suo dire, avrebbe creato delle fratture
profonde e insanabili se avessi perseverato nel mio intento.
Tutto ciò avveniva mentre il banco mediceo da me fondato
in Spagna non riusciva a decollare a causa del blocco dei
contanti da parte di mio cugino. E io avrei dovuto cedere e
mediare? Mi sentivo offeso nella mia intelligenza da qualsiasi
intromissione e pressione in tal senso.
Alla lettura di tale missiva mi ero turbato non poco, trasparendo
il presagio che i giochi fossero fatti e tutto già
deciso, essendo Ficino un personaggio di spicco degli ambienti
culturali della città e, soprattutto, prossimi a mio cugino
Lorenzo.
Quindi quel giorno ero andato in tribunale con lo sguardo
cupo, pensando alla sconfitta, non immaginando cosa
sarebbe avvenuto da lì a poco. Salendo le scale del palazzo
ero passato davanti all’aula dell’Arte della Mercanzia
dove si trovava, al centro della stanza, uno dei dipinti da
me prediletti che aveva rappresentato da sempre uno sprone
ad andare avanti, a non arrendermi. Ma stavolta non ero
entrato nella stanza, non mi ero prostrato ai piedi della Fortezza,
la musa ispiratrice alla quale puntualmente mi avvicinavo
come fossi davanti al ritratto della mia stessa madre.
Si trattava di una delle prime opere del maestro Botticelli,
commissionata da Pier Guicciardini, attraverso la quale il
giovanissimo Sandro era entrato nelle grazie di Lorenzo il
Magnifico.
Quella volta non mi ero addentrato, sentendomi quasi
tradito da ciò che l’immagine rappresentava; lei che mi
aveva spinto a lottare e a combattere senza misura, lei che
con il rosso fuoco delle sue guance, lo sguardo severo e determinato,
l’armatura che la cingeva unitamente alla soavità
dell’abito femminile, trasmetteva a chiunque restasse ai suoi
piedi quel senso di forza che può sprigionarsi anche dall’essere
più dolce e amorevole che possa esistere al mondo.
Mi ero seduto in prima fila attendendo con pazienza,
confortato dalla vicinanza del mio collaboratore Amerigo
Vespucci, notando come tutto intorno sembrasse già preparato,
predisposto al prosieguo di un disegno che mi vedeva
ai margini. Oggi sono felice di dire che mi ero sbagliato e
che quegli strali che mi vedevo intorno non erano sulla mia
testa ma su quella di mio cugino.
Nei primi banchi, dalla parte opposta alla mia, vi era
Lorenzo, vestito con un’elegante blusa di velluto blu bordata
di una crinolina dorata che gli dava un aspetto regale;
sono sicuro che sarebbe stato pronto a guardarmi col suo
sorriso bieco, altezzoso, se la sentenza avesse confermato ciò
che si perpetrava da anni a mio danno. E invece era sbiancato
visibilmente mutando la sua espressione man mano
che l’arbitro pronunciava le parole benedette che segnavano
l’inizio della mia ascesa.
Mi ripresi subito dalla sorpresa e rinvigorii le speranze
di potermi affrancare. Sapevo cha a Firenze c’era un posto
per me, per le mie idee e la volontà di portare ricchezza e
lavoro alla mia gente e così, subito, mi ero rimesso in operosità
prendendo parte attiva alla vita politica della città.
Si ricomponeva il progetto elaborato in testa già alla morte
di mio padre, di riscattare la famiglia, di far sentire la mia
voce.
A quell’epoca ero immerso nei libri, negli studi, cercavo
di cogliere ogni spunto, qualsiasi pensiero giungesse dalle
personalità che frequentavano la casa del cugino Lorenzo,
carpendo ogni minimo dettaglio potesse essere utile per la
mia formazione. Riecheggiavano dentro di me le parole del
capostipite:
«La ricchezza più grande che posso desiderare per voi
amati figli è quella interiore, unita alla forza della volontà;
con quella potrete scalare qualsiasi montagna».
Così trascorsi tutta la giovinezza a ricercare quella ricchezza
interiore di cui parlava mio padre, sforzandomi di
interpretare ciò che intendesse, pensando sicuramente alla
preparazione culturale, ma anche alle riflessioni e agli approfondimenti
filosofici che avrebbero generato in me una
coscienza interiore, un senso dell’equilibrio nella capacità
di intendere ogni punto di vista, anche diverso dal mio. La
meta che avrei voluto raggiungere, pur temendo di non essere
all’altezza di una così elevata aspettativa, era di riuscire
un giorno a essere ascoltato e apprezzato per i discorsi e le
argomentazioni, ricercato per le mie idee.
Per molti anni fui allievo di messere Agnolo Poliziano,
le cui dissertazioni non mi stancavo mai di ascoltare attentamente;
con ammirazione restavo ore e ore a osservarlo, al
riecheggiare delle sue declamazioni, le letture colte che mi
infondevano l’amore per i classici e per i padri del nostro
tempo. Con bramosia divoravo i testi di Ovidio, Seneca,
Dante, Virgilio, di cui possedevo gelosamente tomi ricercati
e unici, custoditi nella mia biblioteca, regno incontrastato
dove trascorrevo gran parte della giornata. E poi le letture
di Lucrezio, in particolare il De Rerum Natura, la cui filosofia
naturale sentivo profondamente vicina ai miei propositi.
Su tali studi adoravo intrattenermi con persone vicine,
che fossero state in grado di comprendere i pensieri, di
arricchire quei lunghi pomeriggi con spunti e riflessioni.
In questi incontri Amerigo era sempre presente in quanto
sulla sua intraprendenza e coraggio riponevo fiducia per
le prospettive future di affermazione della famiglia. Nella
mia casa potevo annoverare le visite di Bartolomeo Scala
e, quando si trovava a Firenze, di Michele Marullo, con il
quale ci intendevamo solo guardandoci negli occhi, godendo
delle letture reciproche che con attenzione sceglievamo
in anticipo, al fine di guidare la discussione.
A volte alle riunioni partecipava anche il maestro Botticelli,
si adagiava in disparte e ci seguiva con gli occhi,
spesso in silenzio, sorseggiando vino liquoroso da un bicchierino
all’altro; con sguardo attento seguiva il dibattito,
ma quando interpellato sbottava:
«E che ne so io… sono un semplice mastro. Lasciatemi
nella mia ignoranza!» girandosi dall’altro lato. I convenuti
sorridevano, restando allo scherzo, facendo finta di non
sentirlo e proseguendo il discorso. Lui, sempre più rosso in
viso, nelle guanciotte corpulente, restava lì ad ascoltare fin
quando, con un gesto di riverenza pomposo e artificioso,
non si congedava in silenzio.
Accadeva anche che scomparisse per lunghi periodi, o
per viaggi che intraprendeva per lavori commissionati anche
di una certa rilevanza, o al fine di portare avanti l’attività
frenetica che svolgeva nella sua bottega.
Al primo impatto, facendo la conoscenza del maestro
Botticelli, poteva sembrare di avere a che fare con un uomo
grossolano, a tratti buontempone, sprezzante per le tradizioni
e insulso. Ma tutto ciò era solo apparenza, era una
patina, come un alone di cui si circondava per celare agli
altri la sua vera natura. In realtà era molto riflessivo e colto,
capace di effettuare con la mente voli pindarici che nessun
altro individuo al mondo avrebbe potuto mai compiere,
tutto ciò grazie alla sua intelligenza e perspicacia, in grado
di cogliere il dettaglio anche nella cosa più insignificante.
Il maestro intratteneva il confronto costantemente con gli
artisti del tempo, in modo velato, ma chiaro a chi lo conosceva
bene come me.
Ricordo nel maggio del 1483 quando, aprendo la porta
della sua bottega a piano terra, esclamai a gran voce:
«Maestro, cosa fate qui, non sapete dove si trova in questo
momento tutto il mondo culturale di Firenze?»
«E dove può trovarsi, qui nella mia testa!» sorridendo
aveva poggiato il pennello, dalla punta inzuppata di giallo
ocra, sui capelli ramati arruffati.
«Maestro, fossi in voi farei una capatina alla chiesa di
Sant’Egidio. Oggi a Firenze è arrivata l’arte, ma non quella
qualunque che può giungere dalla vostra bottega o da quella
di messere Leonardo da Vinci» sorrisi ammiccando «è l’arte
che viene dal Nord e sono tutti a bocca aperta ad ammirarla.
Andate, che non si dica che il maestro Botticelli non
abbia partecipato a questo grande evento». A queste parole
il maestro afferrò un cappello posto sulla sedia e si chinò
fino a toccare il pavimento con un ampio gesto circolare del
braccio, mentre in contemporanea udii una forte scorreggia
provenire dalla sua direzione. Scoppiai in una risata sonora,
ormai abituato alle stranezze e alle sue burla.
Ma il maestro non avrebbe mai perso nessuna delle occasioni
di accostamento agli artisti del tempo, così anche
lui si accodò alla fila che si era creata per entrare nella chiesa
fiorentina dove era stato collocato l’altare che il pittore
fiammingo Hugo van der Goes aveva realizzato per Tommaso
Portinari. Anche io fui molto incuriosito dall’evento,
soprattutto perché il Portinari era stato appena licenziato
da mio cugino Lorenzo, in seguito all’insuccesso finanziario
del banco mediceo di Bruges che fino ad allora aveva
diretto. Nei giorni successivi parlammo a lungo, anche con
il maestro Botticelli, delle potenzialità che si presentavano
attraverso la pittura fiamminga del nostro tempo, intrisa di
realismo esplicitato con un’alta concentrazione di soggetti
vegetali.
Devo ammettere che l’arte fiamminga ci impressionò
tutti, quasi ammaliandoci e, seppure dimostrassimo diffidenza,
non smettevamo mai, a ogni discussione, di effettuare
confronti con le novità palesatesi.
E ora attendo quella che sicuramente sarà una grande
opera, un dipinto dove il committente apparirà ben visibile
attraverso una simbologia raffinata, un’opera dove ci sono
io, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, e la mia famiglia.
Il lungo percorso di ideazione e creazione si è finalmente
concluso, dopo due lunghi anni, ma era già nella mia testa
da molto tempo prima. Da quando nel maggio del 1482
avevo conosciuto la mia futura moglie, Semiramide, sposata
poi nel mese di luglio; più di un anno prima, ancora
diciottenne, avevo firmato il contratto di matrimonio, non
conoscendola e pensando solo alla mia carriera, alle porte
che mi sarebbero state aperte attraverso la parentela con una
famiglia in vista come quella degli Appiani.
Così diventò mia moglie e mi trasformò nell’uomo più
felice del mondo. Già quando lei aspettava il nostro primo
figlio andai dal maestro Botticelli, pieno di grinta, per dimostrare
a tutti quanta forza avessi dentro, convincendolo
a intraprendere questa grande avventura, forte della recente
sentenza in mio favore. Sapevo bene che il lavoro del maestro
non si sarebbe svolto in breve tempo, ma ora attendo la
nascita del secondo figlio e ancora la tavola che suggellerà la
forza e la potenza della stirpe Medici di Pierfrancesco deve
entrare nella mia casa.
Ogni particolare è stato studiato dal maestro e da me,
l’ambiente, la posizione, anche se mai mi ha permesso in
questi anni di vedere anche un centimetro del dipinto che
stava portando avanti. Mi vietava di entrare nel suo studio e
proibiva a chiunque di sbirciare minimamente il suo lavoro
del quale era molto geloso, tanto da avvolgere l’elaborazione
dell’opera in un alone di mistero, fatto di pause, di lunghi
silenzi e attese.
Entrava nella stanza e inquadrava la parete col divano
attraverso le grandi mani aperte, io mi ponevo immediatamente
dietro e guardavo il muro spoglio. Ai margini della
visuale, a sinistra, vi era la porta dell’anticamera con sopra
la prima opera che aveva realizzato con la mia committenza:
Atena, bellissima nella sua risolutezza, armata di una
possente alabarda, domava il centauro Chirone, ammansito
dalla forza e nello stesso tempo dalla bellezza della dea.
Pallade e il Centauro, unico soggetto che al momento
adorna la stanza, è lì al mio cospetto nella sua imponenza e
dolcezza. Anche questa fu un’opera ponderata a fondo da me
e dal maestro, ad assecondare la mia volontà di affermare la
presenza all’interno della casata; così il centauro Chirone,
come paladino del ramo principale della famiglia in quanto
elemento decorativo della corte interna del palazzo Medici
di mio cugino, viene domato dalla bellissima Pallade, la dea
della saggezza fortificata, abbigliata di una veste fluttuante,
adorna di un elemento araldico che rappresenta le radici genealogiche
della famiglia Medici, che accomuna entrambi
i rami parentali: quattro anelli con diamante intersecati tra
di loro che riconducono al capostipite Giovanni di Bicci.
Mi soffermo, come già migliaia di volte, sul viso serio
della dea, consapevole del proprio ruolo strategico e nodale
nella risoluzione delle controversie degli uomini, assuefatta
a dover abbandonare la propria femminilità e dolcezza per
pensare al bene superiore che è la pace per l’umanità, contro
ogni istinto di sopraffazione e di violenza.
Ma eccoli, sento bussare alla porta, finalmente.
«Signore, il maestro Botticelli è giunto con i suoi aiutanti
» uno dei postiglioni sale ad avvertirmi.
«Fateli entrare, aprite le porte!» ordino ai servitori. Attendo
quindi che il trambusto dall’esterno si avvicini grada-
tamente alla mia stanza. Entrano due aiutanti della bottega
del maestro aspettando davanti alla porta il resto del corteo,
poi giunge la grande tavola sorretta da quattro servitori, ricoperta
su di un lato da un manto di velluto rosso sapientemente
legato ai margini per non far vedere neanche un
centimetro di pittura. Spostano il divano e fanno un gran
trambusto con scale e sgabelli, fin quando mettono tutto
a posto lasciando la tavola appesa al muro con la cappa di
velluto ancora ben imbrigliata. Arriva infine il maestro:
«Messere Lorenzo di Pierfrancesco, i miei omaggi! Il vostro
umile servitore ha mantenuto la parola, ecco la vostra
opera…» il maestro si abbassa verso di me con il braccio
destro ben alzato a indicare la tavola.
«Siate il benvenuto maestro, mi avete fatto attendere non
poco, ma sono sicuro che ne è valsa la pena.»
«Certo mio signore, come vedete ne è valsa veramente
la pena, la vostra pazienza è stata ripagata. Ne siete soddisfatto?
»
Resto un attimo a guardare il largo velluto rosso, cercando
di avere anche una minima reazione alla vista, ma non
riesco a esprimermi. Lui sta a guardarmi come attendendo
un mio commento.
«Si maestro, la misura mi sembra quella giusta!»
«Già è qualcosa… tutto qua?»
Stringo gli occhi fissando il telo, arriccio le labbra riflettendo.
«Capisco che siate confuso, ma mi aspettavo qualcosa di
più… mio signore!» si mette quasi sull’attenti, con la testa
rivolta verso l’alto dimostrandosi offeso.
«Anche io veramente maestro, mi aspettavo qualcosa di
più di un telo rosso!»
Si volta come stupefatto, poi vedendo il drappo ancora
annodato finge meraviglia; so bene si tratti di uno dei suoi
soliti trucchetti, ma simulo anche io di non capire e resto
al gioco.
«Oh! Che sbadato, non ho fatto togliere il drappo! Ma
infatti, vedendo la vostra faccia stavo già pensando di portarla
indietro… e sì che sarebbe stato complicato, il carro
è già andato via, dovevano prendere un carico di cipolle
e portarle al mercato. Si vendono bene le cipolle di questi
tempi, sapete signore?» divaga serio. «Riflettevo sul caso di
riconvertire la mia impresa familiare e mettermi a vendere
cipolle, si vendono a due denari al chilogrammo, per produrle,
facendo un bilancio della gestione del terreno, dei
lavoranti…»
«Maestro!» lo interrompo, stavolta con atteggiamento
infastidito «non vi sembra di stare esagerando?! Volete
mostrarmi la tavola, sì o no?» mi chiedo dentro di me se
riuscirà a farmi perdere le staffe, ma cerco di moderarmi
riprendendo un tono calmo.
«Ho già atteso tanto maestro, siate benevolo con me!»
«Certo signore, ma vi invito comunque a riflettere con
calma… sulla questione delle cipolle!» sorride alzando il
dito indice con sguardo sarcastico. «Andiamo al nostro dipinto,
vediamo un po’, cerco di presentarvelo: non ci sono
le cipolle ma tante altre piante, come prescritto da voi.»
Comincio a sorridere pregustandone la visione.
«Al posto delle cipolle, per evitare l’odore forte, ho mes-
so le arance, anche quelle si vendono bene!»
«Maestro, vi prego, continuate seriamente stavolta.»
«Sono serio signore, ho messo le arance come prescritto
da voi ricollegando il nome della vostra casata alla sua origine
latina: mala medica» inizia a declamare in modo dotto
e artificioso «così come troverete l’amato laurus di Laurentius
che, unitamente alle palle dorate, profuma la tavola di
un’aria nuova che porterà a Firenze la freschezza e l’armonia
che voi desiderate!»
Man mano che il maestro avanza nella descrizione mi
sento sempre più felice e desideroso di scoprire il dipinto,
ma non oso ancora imporre la mia volontà e assecondo la
sua presentazione.
«E poi i gigli messere… i gigli della vostra famiglia, a
suggellare i vostri rapporti con la corte francese di Carlo
VIII, alla cui incoronazione avete assistito nel 1483 in qualità
di ambasciatore fiorentino» fa una pausa scrutando i
miei occhi attenti «vi sembra sufficiente signore?»
«Si maestro, mi sembra sufficiente! Che ne dite, la scopriamo?
»
«E poi ancora qualche altra cosa…» continua come cercando
di ricordarsi cosa abbia dipinto «vediamo… allora,
credo che ci siano le rose, i giaggioli, le viole, l’iris, il papavero,
il non-ti-scordar-di-me, i fiordalisi, i garofani» annovera
tutto lentamente, mentre in me cresce ancora la curiosità
e cerco di immaginare ogni elemento enunciato «ci ho
messo la fragola e gli anemoni» i miei occhi si allargano a
ogni parola e non sto più nella pelle «poi anche la cicoria,
il tasso, il mirto… la nigella, il capelvenere… insomma ho
derubato per voi un intero negozio di fiori e mi sono perso
tra i boschi per cercare le piante più rare… capite perché
tanto tempo?»
Sono confuso, non so più cosa pensare, so bene come il
maestro sia capace di esprimere ogni soggetto indicato con
la sua arte, ma non riesco a decifrare tutte le parole pronunciate
quasi fossero una cantilena.
«Tutto qua signore… ah! Dimenticavo: la spada in onore
alla vostra signora madre Laudomia Acciaiuoli e alla sua casata
» pronuncia l’ultima frase aumentando il tono in modo
pomposo e risolutivo. Infine alza la mano facendo segnale
ai suoi aiutanti di slegare il drappo che cade pesantemente
sul divano.
Seduto sulla poltrona di fronte, assisto alla scena fremente,
sentendomi avvolgere in un turbine di emozioni
mai provate prima. Resto in stato confusionale per qualche
minuto, non riuscendo a capire cosa stia avvenendo. L’opera
si apre davanti a me senza ormai nessun velo o segreto. La
meraviglia mi prende e mi lascia senza fiato, piango per lo
sfinimento dell’attesa e resto ancora incredulo a scrutare i
nove personaggi del dipinto, imponente, regale, sublime…
non opera terrena.
Mi riprendo dall’emozione, finalmente, cercando di
comprendere… ma ancora l’armonia delle tinte, delle sagome
sinuose, mi avvolge.
Mi attrae lo sfondo azzurro cristallo e celeste polvere,
aiutandomi a ritrovare serenità e calma, anche se ancora
la mente cerca di decifrare il messaggio celato nel dipinto.
Ogni elemento sembra richiamare il disegno di cui abbia-
mo discusso per tanti lunghi pomeriggi; la figura che mi
personifica nel dio Mercurio, al margine sinistro, caccia via
le nubi che sovrastano il cielo di Firenze, imponendo una
ventata nuova sospinta dalla primavera e dalla sua fioritura,
ma ancora non mi è tutto chiaro.
Mi alzo a scrutare le figure da vicino, nei particolari, e
un moto inconsulto mi porta a rimirare la grande tavola
come dispiegata su un nastro mobile, che spinge a volgere
lo sguardo da destra verso sinistra, prefigurando una narrazione.
Mi soffermo sui visi delle donne, bellissime, e più
guardo più mi prende lo sconforto che mi riporta a piangere,
stavolta singhiozzando.
Riaffiora alla memoria uno dei ricordi più dolorosi della
mia fanciullezza, qualcosa che porto dentro me e che non
ho mai dimenticato, qualcosa di sopito che si ridesta potentemente
nel mio petto, dove il cuore sembra impazzito con
battito frenetico. Il dolore si riaccende, insieme a un senso
di impotenza inconcludente che cova rovinosamente.
Cammino lateralmente rimirando ogni particolare, fino
a giungere alla figura estrema di Mercurio.
Sulla sua veste non vi sono le fiamme, come ha annunciato
il maestro Botticelli. Guardo con attenzione, da vicino,
con gli occhi appannati pieni di lacrime, non si tratta di
fiammelle… ma del broncone! Come al solito il maestro ha
deragliato… ma l’effetto è prorompente.
Un tronco secco capace però di riprendere fuoco, sempre
in grado di rigenerarsi, come la gloria dei Medici… ma anche
come l’amore eterno, inconsumabile.

Specifiche

  • Pagine: 240
  • Anno Pubblicazione: 2019
  • Formato: 122x188
  • Isbn: 88-6086-160-3
  • Prezzo copertina: 14,00

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