Alessandra Favilli
Nessuno cerca di noi

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Prezzo Fiera 15,00
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Alvaro è il soprintendente di una piccola tenuta agricola coltivata a mezzadria, nella campagna Pistoiese agli inizi del novecento. Vive con la moglie Narcisa e i quattro figli (Duilio di dieci anni, Santi di otto, Fiammetta di sei e Beppino di due) al piano interrato della villa di Clementina, ricca vedova proprietaria dei poderi. Narcisa, fuggita dalla miseria e dalla violenza del padre, è insoddisfatta della propria vita, non più contadina e non ancora borghese, mentre Fiammetta, sensibile e sognatrice, soffre della mancanza di tenerezza da parte della madre. La donna conosce Guido, un merciaio ambulante, e se ne innamora. Dopo alcuni mesi di incontri clandestini, Narcisa riesce a convincere l’amante a portarla con sé, e abbandona la famiglia...

Primo capitolo

Dai suoi ricordi affiorava per prima, come un sasso sporgente nel quale incespicava al primo attimo di distrazione, la cucina della villa della Signora. Era figlia del fattore, Fiammetta, terza di quattro, unica femmina. Vivevano tutti, compresa la nonna Assunta, vecchia, secca e perentoria, nel seminterrato della villa, e a dispetto di quel nome poco promettente, seminterrato, che sapeva un po’ di cimitero, a lei quella casa piaceva. C’era poca luce, è vero, soprattutto nei mesi invernali, ma in cambio lo spazio non mancava, i soffitti bassi erano sorretti da grandi travi di legno, scurito dal fumo e dagli anni, e l’impiantito era di cotto grezzo, che a lavarlo consumava le braccia e la schiena. Le grandi stanze in cui abitavano erano adiacenti al magazzino, dove si conservavano le provviste. Più in basso, sotto al seminterrato, c’era la cantina vera e propria, asciutta e sempre fresca, dove si teneva il vino, quello speciale, per gli ospiti di riguardo, e quello per tutti i giorni, che veniva prodotto nella piccola tenuta. Tre delle stanze a loro disposizione fungevano da camere da letto. La più grande, che spettava di diritto ai genitori, era arredata semplicemente: un armadio con l’anta a specchio, i comodini gemelli, la cassapanca in fondo al lettone, dove riporre le coperte di lana e le ruvide lenzuola di canapa. Poi c’era quella della nonna, con i santini e la statuetta della Madonna sul comò. Quella destinata ai figli il babbo l’aveva divisa in due con un tramezzo di legno di pino, che la Signora gli aveva lasciato tenere scontandolo dalla paga un tanto al mese. “E così ‘un vi lagnerete di dover dormire tutti in un mucchio, come i poveracci!”, aveva commentato Alvaro, guardando soddisfatto quel lavoro che gli era costato, oltre ai quattrini, il suo poco tempo libero. I ragazzi dormivano nella parte più grande, e per Fiammetta aveva ritagliato un angolino, con una seggiola zoppa, un vecchio comodino col piano di marmo, dove appoggiava la bugia, un pitale di coccio sotto il letto per non dover uscire di notte e arrancare in camicia fino alla latrina, che stava fuori, e il catino e il bricco per lavarsi, in un canto. “O’ babbo - s’era lasciata scappare Fiammetta - com’è piccina!” “I tuoi fratelli sono tre. Te sei una sola, boccalona! Questo posto ti basta e te n’avanza! E poi, sarà piccina, ma ‘un ci manca nulla. Guarda, c’hai pure la finestra!” E infatti le era toccata una finestrella, quasi sotto al soffitto, chiusa con una grata. Lei non ci arrivava, neppure se saliva sulla seggiola, però nelle notti di luna, da quel rettangolo di vetro, la luce colava giù fino al suo letto in rivoli argentei, e formava una pozza chiara sul pavimento. In quelle sere Fiammetta spegneva il moccolo ancor prima di essersi tolta i panni di dosso, si infilava il camicione e poi saltava a piedi nudi in quel piccolo lago lunare, immaginando che fosse la porta per il mondo delle fate. In inverno, toccava a lei preparare gli scaldini che la madre appendeva al gancio del prete per scaldare i letti, che sennò sembrava proprio di infilarsi nell’acqua ghiacciata. “Fai ammodo! - le ripeteva la nonna - La brace sotto e sopra la cenere, perché se le lenzola si bruciano, te lo fo’ vedere io!” L’altra stanza era quella in cui vivevano, e fungeva anche da cucina della villa. Le pietanze arrivavano al piano nobile con un montacarichi, e a servirle ci pensava la cameriera col vestito nero, il grembiule inamidato e la crestina di sangallo bianco. La madre di Fiammetta era una brava cuoca, e la Signora se ne contentava. Solo per i pranzi di gala faceva venire un cuoco di città, che s’impadroniva della cucina e cucinava certi intrugli che chiamava con nomi strani ed esotici, paté, sufflè, sciarlotte, e da una rinomata pasticceria arrivavano in grandi scatole dolci che sembravano trine di zucchero. Narcisa lo aiutava senza fiatare, anche se nessuno avrebbe potuto toglierle dalla testa che i suoi budini e le sue crostate fossero, nella sostanza se non nell’apparenza, molto più buoni. Accanto alla cucina a legna c’era il focolare, che occupava un intero angolo dello stanzone, ed era tanto grande che sui lati trovavano posto due lunghe panche. A buio, nella brutta stagione, la famiglia si riuniva lì, al caldo davanti a un gran ceppo fiammeggiante. Qualche volta venivano i vicini, ma più spesso si andava a casa loro. I grandi discorrevano dei lavori dei campi, dei matrimoni e delle nascite, delle malattie o delle disgrazie capitate in sorte a quelli che conoscevano. I vecchi fumavano la pipa, le donne cucivano o intrecciavano canestri. Ma il camino, come un cuore pulsante, non doveva spegnersi mai. Le braci restavano vive anche in estate, quando le veglie si facevano nelle aie dei casolari. Alvaro, in realtà, era un fattore per modo di dire, poiché la tenuta era troppo piccola per avere bisogno di un personaggio così importante. Si sarebbe potuto definirlo, piuttosto, il factotum della proprietaria. Per quel pugno di poderi sparsi intorno alla villa, uno come lui, un contadino che aveva imparato a leggere e scrivere, che sapeva tenere in ordine i conti, che possedeva acume ed esperienza e conosceva a perfezione i lavori dei campi e della stalla, bastava e avanzava. Ecco perché viveva nel seminterrato della villa, anziché in una bella casa per conto proprio come i fattori delle grandi tenute nobiliari, e il suo salario, pur essendo più sostanzioso e più sicuro rispetto alla rendita dei mezzadri, non gli consentiva di tener la moglie come una signora come facevano i suoi colleghi. A lui piaceva, tuttavia, farsi chiamare Sor fattore dai contadini e dagli occasionali braccianti, e a un fattore cercava di somigliare. Portava cappello e panciotto, l’orologio a cipolla con la catena, e lo si vedeva girare su una mite giumenta bianca, che Alvaro chiamava “la Masina”. Non era come avere il calesse, ma gli conferiva comunque una cert’aria di autorità, e gli consentiva spostamenti più rapidi da un podere all’altro. Nel profondo, però, ancora si sentiva contadino, e non disdegnava di sporcarsi le mani quando se ne presentava la necessità. Non c’erano fronzoli, in casa del fattore. Per questo la villa, più che su un altro piano, sembrava a Fiammetta su un altro pianeta, o meglio, di un altro mondo, perché di pianeti lei non sapeva. Ci metteva piede di rado, quando accompagnava la mamma, se il suo aiuto era richiesto, per sbrigare qualche incombenza o dare una mano alle fantesche, e aveva adocchiato certi tappeti morbidi che non osava calpestare coi suoi zoccolacci, e pitture sui muri, perfino sugli altissimi soffitti, mobili lustri di cera, e nicchie lungo i muri, che contenevano statue tutte bianche di donne e uomini nudi, ma la mamma le aveva ingiunto di non guardarle. “ Guarda per terra, screanzata! Quelle le son cose da signori, che non ci fanno caso, noi contadini s’ha vergogna e ci vengono idee sbagliate!” Lei però le sbirciava di sottecchi, stupita da quella superficie lucida che sembrava pelle, e si chiedeva se davvero ci fossero persone che avevano mani e piedi così candidi e lisci. Le mani dei suoi genitori erano arrossate e piene di calli, sfigurate dall’uso degli attrezzi di lavoro. Del resto, anche quelle dei fratelli più grandi e le sue erano ruvide e screpolate, con le stimmate dei geloni in inverno e le unghie orlate di nero. “Lavatele ammodo codeste mani! - la sgridava Narcisa – Icché tu fai, porti i’ lutto a i’ gatto?” Ma per quanto Fiammetta le strofinasse col sapone, proprio pulite non erano mai. La villa, costruita verso la fine del diciassettesimo secolo, coronava la sommità di un cocuzzolo, dal quale si dominava la campagna circostante e si scorgeva in lontananza la città di Firenze. Un lungo viale di cipressi portava dal cancello principale al grande giardino all’italiana che scendeva dolcemente verso una grande terrazza. Affacciandosi dalla balaustra si vedeva, in mezzo a una ragnatela di muretti a secco, la scacchiera dei poderi, ognuno col suo cascinale, l’orto, gli appezzamenti coltivati a cereali, e i filari di viti lungo il confine. Il marito della Signora, ricco di famiglia ma sprovvisto di titoli, l’aveva acquistata, per una cifra che era quasi una rapina, da una famiglia, quella sì, nobile e con tanto di stemma, che quel vaticano non se lo poteva più mantenere e aveva preferito venderlo e conservare la palazzina in città. Il nuovo proprietario, fresco marito di una donna ambiziosa, che avrebbe dato una mano pur di ben figurare nella buona società fiorentina, aveva ribattezzato la nuova magione “Villa La Ginestra”, perché gli era parso che quel nome avesse un bel suono, ignorando con disinvoltura la completa assenza del rustico arbusto sui fianchi di quel colle. In villa ci venivano all’inizio di maggio, e ci restavano tutta l’estate, come si usava tra i signori. Alla fine di settembre tornavano a Firenze, per non perdersi la stagione mondana. Allora le domestiche coprivano i mobili con grandi teli bianchi e preparavano la villa al sonno invernale. Poi tornavano ai loro cascinali, perché non c’era famiglia di contadini che non avesse qualche figlia a servizio. Il sor Giacomo comprò perfino un’automobile, una delle prime, che sembrava un calesse con le ruote, e un giorno di primavera Alvaro che, nello scrittoio, uno studiolo messo a sua disposizione dai padroni, riceveva i contadini per il rendiconto mensile, fu richiamato dalle grida dei figli, che sovrastavano acute un fragore infernale. I bambini non avevano mai veduto niente di simile, e subito si strinsero al padre, che si era precipitato fuori. Indicarono muti quella cosa lucente che si era fermata sul vialetto in un nuvolo di polvere. Ma Alvaro era uomo di mondo, e a Pistoia un paio di vetture a motore gli era capitato di vederle. “Chetatevi, ‘un fate la figura dei somari! È un’automobile, quella. ‘Un c’è da aver paura, la ‘un è che un barroccio, solo che l’è di ferro e ‘un ha bisogno de’ buoi.” “Ma se ‘un c’ha i buoi, com’è che la cammina?” chiese serio Duilio, che aveva già sei anni. “Dentro, sotto quel coperchio, c’è un arnese che si chiama motore. Brucia la benzina che butti nei tubi e quel foco fa girare le ròte.” “E quello chi è?” continuò il bambino additando un tipetto in divisa blu con gli alamari che portava un berretto dello stesso colore, con la visiera lucida, e un gran paio di occhialoni che lo facevano assomigliare a una cavalletta. L’uomo era saltato giù dal posto di guida e s’era precipitato ad aiutare il sor Giacomo a scendere da quel trespolo. Clementina era venuta in carrozza: su quella diavoleria scoperta i suoi abiti costosi s’impolveravano irrimediabilmente. “È lo scioffèr. Quello che guida l’automobile, insomma.” Con Sauro, l’autista, Alvaro finì col fare amicizia, tanto che quasi sempre, l’uomo cenava con loro e si fermava volentieri a discorrere e a bere un bicchiere di vino. Ma sulle prime ebbe a discuterci e volarono parole grosse, perché Sauro avrebbe voluto riparare l’auto nella stalla. “‘Un se ne ragiona! - tuonò Alvaro - La stalla l’è per gli animali e io ci tengo la mi’ Masina!” “Ma la stalla è enorme!” insisteva Sauro. “La Masina con quell’arnese puzzolente ‘un ce la metto mai e poi mai. Vieni, si libera la vecchia rimessa, e vuol dire che la macchina la starà lì dentro.” Ma quel marito, il cui ritratto baffuto campeggiava sopra la mensola di marmo del camino del grande soggiorno, Fiammetta l’aveva appena conosciuto. Era morto, come diceva la Signora, nel fiore degli anni, ucciso dai guasti prodotti dal diabete. Clementina si era dunque trovata nella condizione di vedova e, essendo il povero Giacomo ormai orfano e provvidenzialmente figlio unico, padrona di un considerevole patrimonio. Si avvicinava alla quarantina, e bella non era mai stata, con un viso vagamente porcino, occhi piccoli e naso a patata, un po’ troppo popputa per essere proporzionata, piccola di statura com’era. L’aspetto, tuttavia, nel complesso non era sgradevole, e in gioventù le era stata d’aiuto una sorta di vitalità animale che la rendeva appetibile. Una dote naturale utile più della bellezza, che qualche decennio più tardi si sarebbe chiamata sex-appeal. Nata in una famiglia della piccola borghesia fiorentina, il babbo scrivano al Tribunale, aveva passato l’adolescenza rivoltando i vestiti per nasconderne la consunzione, rinnovandoli con trine e volants di seconda scelta, e giurando a se stessa che non avrebbe sposato un mezze-maniche, a costo di restare zitella. Facendo ricorso alle poche conoscenze di cui disponeva la sua famiglia, era riuscita a farsi invitare a feste alle quali partecipavano persone di condizione un poco superiore alla propria. Di gradino in gradino, risparmiando il centesimo e sacrificando al monte di pietà la catenina e le buccole d’oro ereditate dalla nonna per potersi confezionare un vestito alla moda, era approdata finalmente ai raduni frequentati da quella borghesia che possedeva quattrini e potere. La buona educazione e gli studi da maestra le consentivano di non sfigurare in mezzo a signorine certo più eleganti e meglio pettinate, ma spesso meno scaltre di lei. Aveva così conosciuto Giacomo, già trentacinquenne, bruttino, timido e diabetico ma, virtù che cancellava ogni altro difetto, ricco quanto bastava. “Lei sa tante cose, Giacomo, è così intelligente, mentre io, povera me, sono proprio una sciocca. Me lo spieghi lei quel discorso che ho sentito poco fa, che io non ne ho capito niente!” Il giovanotto andava in brodo di giuggiole, e si affannava a chiarire alla sua dama quale fosse il nocciolo della questione: “Vede, Clementina, è semplicissimo!” e attaccava a ragionare di Giolitti, di Crispi, del Re e di un sacco di faccende aggrovigliate e fumose. Clementina faceva palpitare le ciglia e annuiva convinta. “Del resto, lei è troppo graziosa per guastarsi l’umore con questi discorsi noiosi!” proseguiva lui. La ragazza convenientemente arrossiva. “Ma cosa dice! Lei non mi annoia davvero!” Giacomo, poco avvezzo alle lusinghe femminili, ci mise poco ad abboccare all’amo che Clementina nascondeva con abilità sotto esche ogni giorno diverse. Nel giro di un anno erano maritati. Per i dieci anni che il matrimonio era durato, del resto, nessuno dei due aveva avuto motivo di lamentarsi dell’altro. Adesso, malgrado avesse perduto la freschezza della gioventù, non le sarebbero mancati i pretendenti, anche più giovani di lei, in virtù delle sue considerevoli sostanze e del fatto che dal primo matrimonio non erano nati figli. Ma Clementina non era una stupida. Perché mai avrebbe dovuto consegnare il suo patrimonio e la sua libertà nelle mani di un marito? “A che mi servirebbe un altro marito, eh, Fiora?” chiedeva alla sua cameriera. Preferiva confidarsi con lei che con le amiche. Difficilmente Fiora, a differenza di quelle, avrebbe avuto occasione di riferire i sui discorsi in un ambiente diverso da quello della servitù della villa. La ragazza non si azzardava a dissentire, e rispondeva mansueta “Ha proprio ragione, Signora!”. Comprendeva che la Signora potesse pensarla diversamente dalla gente del popolo. Non sembrava una che all’amore desse tanto peso. Era ricca, e il cognome del defunto e la condizione di vedova la mettevano in una posizione sicura. Con un minimo di discrezione, avrebbe potuto aggirare le insidie della passione, come facevano tante nella sua situazione. In cuor suo, però, Fiora non vedeva l’ora che il suo moroso, col quale si incontrava di nascosto ormai da sei mesi, si decidesse a fare l’ultimo passo e a chiederla a suo padre. “Nello, ma te ce l’hai davvero intenzioni serie? - s’era lasciata scappare qualche giorno prima mentre, all’imbrunire, uscivano di soppiatto dalla pineta che ombreggiava il colle, dietro la villa. - ‘Un è che la tiri un po’ troppo alle lunghe?”. Il giovanotto si era portato la mano sul cuore: “C’ho solo te n’i capo, Fiora, te lo giuro! Struggo dalla voglia di sposarti. Lasciami sistemare un po’ meglio e farò i mi’ passi!”. Era sincero, mentre sentiva ancora nelle mani la forma tiepida del corpo di lei. L’esitazione di Nello, figlio secondogenito di un mezzadro, era dovuta al fatto che Fiora, diventando cameriera della Signora, si era innalzata ben al di sopra della condizione di una contadina. Temeva che la ragazza non riuscisse ad adattarsi all’idea di tornare alla fatica dei lavori nei campi e allo scomodo stato di nuora, soggetta all’autorità dei maschi e della massaia, che sulle donne di casa aveva anche più autorità del capoccia. “Sei un contadino, Nello, e i contadini hanno a maritarsi con le contadine.” aveva sentenziato, lapidario, Renzo il cozzone (nota: sensale di matrimoni), al quale il giovane s’era rivolto, in gran segreto, per un consiglio.

Specifiche

  • Pagine: 230
  • Anno Pubblicazione: 2018
  • Formato: 150*210
  • Isbn: 978-88-943065-4-5
  • Prezzo copertina: 15€

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