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Damster edizioni

Sara Magnoli
Se il freddo fa rumore

Se il freddo fa rumore
Prezzo Fiera 14,00
Prezzo fiera 14,00

Due ragazzine che non si conoscono sparite misteriosamente dalla stessa cittadina di provincia.
Un brutale omicidio senza spiegazione.
Un groviglio di emozioni, sentimenti e relazioni dove niente è come sembra.
L’ombra di intimidazioni e minacce e la paura di non sentirsi mai al sicuro.
Un inquietante caso per il vicequestore Luciano Mauri e per la giornalista Lorenza Maj. In una solitudine che penetra nelle ossa. Proprio come il freddo.

 

Sara Magnoli, giornalista professionista, vive in provincia di Varese. 
Ha mosso i primi passi nel mondo dell’informazione giovanissima con la direzione di Indro Montanelli prima a “Il Giornale” e poi a “La Voce”.
Vive con suo marito, suo figlio, sua figlia e due gatte nel cinema ristrutturato creato dai suoi nonni.
Scrive romanzi per adulti e per ragazzi, prediligendo il genere giallo.
Il suo “Se un cadavere chiede di te” ha vinto la sezione ebook del premio Garfagnana in Giallo 2015 e numerosi suoi racconti sono stati finalisti o si sono classificati fra i premiati in diversi concorsi nazionali e internazionali.
Ama la musica, il teatro, il cinema, l’arte, i libri, la pizza, il gelato, il Lambrusco (anche se è astemia), le crescentine e tutto ciò che vi assomiglia, la pastiera, gli spaghetti al pomodoro (al dente). 
E il mare.

Primo capitolo

Meglio di un orgasmo.
Il pigiama gonfio di sudore.
L’aveva sognata.
Al risveglio improvviso si trovò già a sedere sul letto.
L’aveva sognata.
E nel sogno ricordava.
Riviveva quanto accaduto solo poche ore prima. Quando lei si era piegata sotto i suoi colpi come un panetto di burro. Che piacere aveva provato. Si era sbriciolata come un friabile biscottino da tè.
Non pensava potesse essere così appagante uccidere qualcuno e sentirlo morire sovrastandolo con le proprie mani.
Zoccoletta puttanella. Ma che ti pensavi?
Tolse le gambe da sotto le coperte, le fece scivolare sul materasso e con i piedi, lentamente, toccò il pavimento. Era gelido, e fu un brivido che alla sua mente riportò lo stesso piacere provato ammazzando. Ammazzandola.
Nel buio, pur a fatica, le sue mani iniziarono a scorrere senza volersi fermare sul pigiama stendendosi sul corpo quel sudore come fosse un olio profumato e potesse prolungare il benessere che stava provando.
Non ebbe neppure bisogno di aprire gli occhi, anzi, voleva tenerli chiusi, e respirare piano, per non far uscire da sé quel godimento sottile che voleva solo poter estendere all’infinito.
Pensava di essere al sicuro, quella cretinetta. Pensava di poter fuggire.
Storse la bocca in quello che voleva essere un sorriso di soddisfazione. Risentì tra le mani il panetto di burro fondersi, il biscottino da tè sbriciolarsi.
Non sapeva ancora di aver ucciso la persona sbagliata.


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Nomadi. Si spostavano nel chiuso dell’abitacolo costrette a una prigionia che lui aveva deciso per loro.
Nomadi. Come lui. Lui che le costringeva a stare rinchiuse. Rinchiuse, solo per lui. Lui che era sfuggente.
Nomade. Come loro. Con loro.
Con loro condivideva un segreto. Il segreto. Era solo suo, non aveva mai permesso a nessun altro di farne parte. Non l’avrebbe mai permesso.
Neppure a lei. Sagoma scura che aveva lasciato poco prima sola vicino alla panchina davanti al teatro chiuso. Avrebbe dovuto ricordarselo, che a lei i teatri facevano paura da quando…
Per un attimo ebbe un’esitazione. Dalla terza scalò alla seconda, come volesse rallentare e tornare indietro, mentre in realtà si stava preparando alla quarta. Ma fu solo un attimo. Un istante. Una frazione di tempo così piccola da non ricordarsela neppure.
Sapeva di averle fatto male. E sapeva anche che lei, tutto sommato, non se lo meritava. Era come una bambina, nonostante il suo corpo non fosse più acerbo e neppure più di ragazza. Ma dentro, lui lo sapeva, lei era rimasta una bambina. Vittima di un’adolescenza che forse non aveva mai vissuto, troppo impegnata a cercare di piacere agli altri prima che a se stessa, a non deludere chi la voleva brava ragazza, matura, fine intelligenza. Prima in tutto. Fino a renderla per sempre ultima davanti a se stessa.
Lo sapeva anche lei, ne era certo, anche se non se ne voleva rendere conto.
Ma il segreto delle note nomadi doveva essere solo suo. Gli bastava ogni sera chiudersi nella sua auto e far partire il cd perché i suoni della quinta danza ungherese di Brahms iniziassero a muoversi come impazziti, alla ricerca di uno spazio aperto che lui negava loro ogni sera, ogni volta. Tutte le volte.
Nessuno sapeva di questa sua grande passione musicale. E nessuno avrebbe mai dovuto saperlo. Nessuno l’avrebbe mai saputo. Non che se ne vergognasse, al contrario. Ma un segreto ciascuno di noi deve averlo. E quello con la quinta danza ungherese di Brahms era solo suo. Dal Grande Dittatore di Chaplin, un minuto e quarantatre secondi del barbiere che si muove sul nomadismo di quelle note, alla guerra di violini che Dudley Moore dichiarava contro Armand Assante per l’adorabile infedele che credeva fosse Nastassja Kinski. Era il 1984 quando Howard Zieff aveva curato la regia di Un’adorabile infedele, remake di un film di trentasei anni prima.
E la danza ungherese numero 5 di Brahms l’aveva stregato. Unica essenza di genere femminile che fosse mai riuscita a possederlo totalmente. Accompagnando un titolo di infedeltà che lui indossava come un vestito cucito su misura. Il grande direttore d’orchestra Claude Eastman che affonda l’archetto come se fosse una spada a trafiggere il violinista che crede sia l’amante della giovane moglie.
Il violinista… come si chiamava il violinista? Stein. Maximilian Stein. Maximilian Stein. Maximilian. Le coincidenze, a volte, chissà se esistono.
La necessità passionale di quelle note di liberarsi, muoversi, non fermarsi, picchiava forte nell’abitacolo dell’utilitaria, mentre la sagoma scura di lei non era più sullo sfondo, pur essendoci ancora.
Lei, lei sì che era fedele. Intimamente fedele, nonostante quella volta. Quella volta che neppure un infedele come lui riusciva a dimenticare. Strana. Irreale. Illusoria.
Sentiva il bisogno di ingranare la quinta, con quella musica sparata a tutto volume nell’abitacolo dell’utilitaria. Ma pioveva. Quella stupida pioggerellina del cazzo che Roma non aveva. O almeno, lui non se la ricordava. Ce l’avevano lì, in quello straccio di pianura che giurava di avere uno dei più importanti polmoni verdi d’Europa. Malato di cancro da inquinamento. Atmosferico, acustico, alla faccia di chi lo negava e cercava pretesti per dire che non era così, che non si poteva incolpare l’aeroporto, l’indotto automobilistico, che non c’erano “prove tangibili”. Tutte stronzate. Le auto inquinano, gli aerei pure, il riscaldamento anche. Punto. Che altre cazzate potevano inventarsi per negarlo? L’aeroporto di Malpensa aveva squarciato il cuore e l’anima di quello che si stava sempre più velocemente trasformando in un’accozzaglia di case dormienti o disabitate. Lì come altrove.
Se l’era goduto quello spettacolo in un teatro che era stato inaugurato da colui che un mese dopo sarebbe diventato Paolo VI. Teatro delle Arti, si chiamava, ed era uno splendido esempio di grande prosa in una città che contava poco più di 50mila abitanti. Gallarate. Un passato manifatturiero che non esisteva più e un nome che a lui ricordava, chissà come, “passate battaglie”.
Ma quel teatro, ah, quel teatro. Avevano declamato parole, da quel palco, lo aveva letto sulle locandine appese nel foyer, nomi come Vittorio Gassman, Mariangela Melato, Nobel come Dario Fo. E ancora Peppino De Filippo, Giancarlo Sbragia, Valeria Moriconi. L’inaugurazione nel 1963 aveva avuto il volto di Emma Gramatica, nella Damigella di Bard, commedia di Salvator Gotta.
Alla fine aveva ceduto anche lei davanti a quei due biglietti che lui le aveva sventolato davanti. Quel teatro non era male, quello spettacolo non era stato male, per niente. Ma lui l’aveva vista, con la coda dell’occhio, lei aveva tenuto lo sguardo serio e fisso sul palco, aveva applaudito solo alla fine. Paura, delusione, dolore.
E poi, fuori, la gente se ne era andata via quasi subito, complice quella maledetta pioggerellina. Le luci si erano spente, in quella via stretta in zona a traffico limitato, chi andava a pensare che lì ci fosse un teatro così, stretto tra palazzi, negozi sopravvissuti, l’oratorio che al teatro si collegava, i parcheggi poco distanti occupati la sera, la notte, in parte dalle auto di residenti senza box. Anche loro due avevano trovato posto lì vicino, nella strada che immetteva verso quella pedonale del teatro, accanto a un ponte sotto il quale scorreva il torrente Arno con le sue anatre, i suoi pesci, l’immondizia gettata dentro senza ritegno. Ma alla fine dello spettacolo lui era salito veloce sulla sua auto, e aveva lasciato lei là, sola.
– Fa’ attenzione, – gli aveva detto lei, come ogni volta quando si separavano alla fine di quelle giornate che li avevano visti per troppo tempo fianco a fianco. Fa’ attenzione. Ma non aveva teso la mano a fargli una carezza, come era talvolta capitato, cucciolo innamorato di lui ma che amava un altro. Non quella sera. Solo: fa’ attenzione. A lui, che si era chiuso nell’auto e se ne era andato subito, lasciandola al buio, vittima delle sue paure. Lui sapeva che lei lo capiva anche senza che le dicesse nulla. Ma era sempre convinta di essere lei a non farsi capire dagli altri, se non esprimendosi a parole.
Fa’ attenzione. A quegli archetti di violino che sembrano spade. A quelle note zingare pronte a qualsiasi inganno pur di ritrovare la libertà. A quelle strade opacizzate dalla pioggia, da quella pioggia. A Roma non c’era. Roma, Roma, sempre Roma. Lui, nomade, in Roma aveva trovato la madre che voleva, quella dove si conta qualcosa pur potendo passeggiare per la strada senza che ti riconoscano. Anche se per lui era stato diverso. Era diverso.
Doveva raggiungere l’autostrada e poi sarebbe stato libero di correre.
E figurati se non arriva lo stronzo con il suv. Eccolo qui, a mezzanotte passata. E abbassa quei cazzo di fari, coglione. Abbassali che danno fastidio. O supera, imbecille, e vai a schiantarti più avanti.
Si strinse un po’ più sulla destra e questa volta sì che scalò. Che passasse e in fretta, con quei fari così alti.
Oh, ma è davvero cretino. Anche il suv rallentò, scalò la marcia, restandogli, come si usa dire in gergo, proprio attaccato al culo.
Picchiavano, le note, premevano sui finestrini chiusi. Colpivano le frecce lanciate a vendicare l’onta che il direttore d’orchestra credeva di aver subito da un’adorabile moglie che pensava infedele. Ridevano sulle mani intente a insaponare del barbiere Chaplin.
Il suv si spostò un poco sulla sinistra e sembrò voler passare a ogni costo.
Asfalto nascosto dalla pioggerella arrivata a disturbare un parco dai polmoni malati. Falò di nomadi che suonano melodie tzigane.
Fa’attenzione. Fa’attenzione.
Supera, maledetto idiota.
Eccolo lì, finalmente in fase di sorpasso, per stringere, stringere, costringere a fermarsi. L’aveva fatto apposta.
L’impatto con il ponte sotto il tratto di ferrovia fu questione di un momento. Non fu lui ad aprire la portiera per liberare la quinta danza ungherese di Brahms dalla prigionia.
Le note fuggirono. E per lui fu il buio.

Specifiche

  • Pagine: 290
  • Anno Pubblicazione: 2017
  • Formato: 14x20
  • Isbn: 978-88-6810-312-5
  • Prezzo copertina: 14

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