ANTONIO FOGAZZARO
VIAGGIO IN SVIZZERA (1868)

VIAGGIO IN SVIZZERA (1868)
Prezzo Fiera 9,60
Prezzo fiera 9,60

Nel 1868 un giovane e ancora sconosciuto Antonio Fogazzaro si abbandona al fascino della Svizzera, territorio romantico per eccellenza. Tra i laghi, le vette, le foreste, abitate dal fantasma di Guglielmo Tell, il futuro scrittore si imbatte in una nuova specie umana: il turista. Il diario del suo viaggio in Svizzera intreccia così poesia e umorismo, natura e sociologia, memoria e contemporaneità, in un connubio affascinante che prepara le opere maggiori.

Edizione criticamente condotta de Fabio Finotti
Postfazione di Enrico Grandesso

Con immagini a colori

Primo capitolo

Fabio Finotti

 Il Diario di Fogazzaro e il mondo del viaggio.

1. La civiltà del tempo libero è un’invenzione abbastanza recente, che si delinea e si sviluppa nel corso dell’Ottocento.[1] Col consolidarsi della rivoluzione industriale, la piccola e la media borghesia scoprono di non essere più dominate dal primato del bisogno o dell’accumulazione capitalistica, e vanno trovando nuovi modi di occupare lo spazio del “non lavoro”. Uno spazio fino all’Ottocento regolato soprattutto dalla religione, attraverso riti, celebrazioni, sagre, e un calendario settimanale diviso tra il tempo profano della produzione e il tempo sacro della festa, quando ogni occupazione venale è interdetta. Mentre gli strati più popolari continuano ad obbedire al calendario festivo della religione, la creatività borghese scopre nuovi modelli di «divertimento», legati soprattutto alla percezione della vita come spettacolo, come novità continua, come materiale infinito di «curiosità», secondo un atteggiamento colto perfettamente da Baudelaire nel Pittore della vita moderna.[2] Non stupisce dunque che tra i modelli “laici” del moderno tempo libero, primeggi quello del viaggio, facilitato dalle nuove vie di comunicazione. Dopo l’invenzione del vapore, infatti, l’Europa si va coprendo di una rete ferroviaria, che mette in comunicazione territori prima isolati. Binari e traversine si avventurano arditamente tra picchi e laghi, costeggiano voragini, forano montagne, tessono i fili di un disegno ispirato non solo ad interessi commerciali, ma al gusto del pittoresco, al desiderio di esplorare gli angoli più suggestivi e romantici del continente.

Nel 1863 Giosue Carducci compone l’Inno a Satana, posto a conclusione dei Levia Gravia del 1865, culminante proprio nella celebrazione del treno e del suo moto vertiginoso ed ubiquo: 

Un bello e orribile
mostro si sferra,
corre gli oceani,
corre la terra:

 corusco e fumido
come i vulcani,
i monti supera,
divora i piani,

sorvola i baratri;
poi si nasconde
per antri incogniti
per vie profonde;

 ed esce; e indomito
di lido in lido
come di turbine
manda il suo grido,

 come di turbine
l’alito spande:
ei passa, o popoli,
Satana il grande;

passa benefico
di loco in loco
su l’infrenabile
carro del foco.[3]

E ben prima dell’unità italiana, gli spiriti più illuminati e progressisti individuano nella costruzione di una moderna rete ferroviaria una condizione fondamentale di progresso economico e sociale del nostro Paese. La vera unità della penisola deve essere anche la creazione di un sistema di comunicazioni che ne unisca le sparse membra in un solo organismo. Già nel 1845 il conte Petitti di Roreto scrive cinque discorsi sulle Strade ferrate italiane.[4] Ed è soprattutto Cavour a insistere sul tema della ferrovia, a partire da un fondamentale articolo del 1846: Des chemins de fer en Italie.[5]

Il carattere monumentale delle stazioni ferroviarie ottocentesche e primo-novecentesche rappresenta simbolicamente il fascino del treno e la sua centralità nell’immaginario moderno. Dalle stazioni di Paddington (1855) e di San Pancrazio (1868) a Londra, alla Gare du Nord (1861-65) e alla Gare du Quai d'Orsay (1900) a Parigi; dalla stazione di Porta Nuova a Torino (1868) a quella Centrale di Milano (1931), gli edifici acquistano un carattere monumentale sempre più marcato, a metà tra la reggia e il tempio, dove anche gli elementi più moderni (il vetro, il ferro) sono messi al servizio dell’aura onirica che avvolge il treno e il viaggio che su di esso si compie.

Colpisce la distanza rispetto alla modestia delle tradizionali stazioni di posta, che costituiscono invece gli snodi secolari dei viaggi in carrozza. Salire su un treno, evidentemente, appare un’esperienza fuori del comune, il cui carattere straordinario è legato anche al fatto che per la prima volta l’uomo supera la velocità dei vettori naturali, come i cavalli. Attorno ai viaggiatori che si affacciano sbalorditi ai finestrini, il mondo sembra scomporsi e ricomporsi in un velocissimo caleidoscopio d’immagini, la materia pare dissolversi in luce e colore, generando una nuova percezione della realtà alla quale la pittura, dall’impressionismo in poi, darà espressione.

Ma il treno si direbbe è anche simbolo di fatalità e anche per questo motivo acquista connotazioni quasi sacrali, al di là della sua struttura meccanica. Il viaggiatore non è in contatto con i macchinisti, e mai come in un treno ha l’impressione di essere portato verso un destino non scelto da lui ma ineluttabile, dato che i binari non concedono deviazioni. E tra Otto e Novecento questa percezione della locomotiva come di uno strumento del fato – centrale in testi non italiani, come Anna Karenina (1877) - ritornerà con insistenza. Ecco Alla stazione in un mattino d’autunno di Carducci:

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.[6]

I viaggiatori sembrano gli ostaggi di un’oscura divinità del viaggio che decide per loro, e si nutre delle loro vite. Treni più recenti, colmi di deportati, vengono in mente nel leggere questi versi carducciani che certo incarnano le sensazioni di angoscia fuse con quelle di piacere e di stupore nei viaggiatori ottocenteschi. Come accade anche in molti passi del Diario di Fogazzaro, il viaggio può dunque essere un piacere misto, dove il senso dell’avventura e della scoperta, si mescola con un’oscura percezione di impotenza e smarrimento.

Accanto al treno l’altro protagonista della rivoluzione del viaggio nell’Ottocento è il piroscafo. Come il fratello su ruote, anche il moderno battello a vapore apre nuove vie di comunicazione scavando deserti (il Canale di Suez è inaugurato nel 1869) o addirittura montagne (il Canale di Panama, è completato nel 1914, ma viene ideato da Lesseps già nella seconda metà dell’Ottocento).

E come il treno, anche il piroscafo è strumento della cultura borghese del viaggio. Le navi colme di emigranti sono infatti anche transatlantici di lusso. Basta cambiare di classe per trovarsi in un mondo completamente diverso, dove regnano il lusso, l’eleganza e il privilegio: quel mondo esibito in una recente mostra al Victoria and Albert Museum, 3-(feb-2018 - 10-giu-2018), appropriatamente intitolata: Ocean Liners: Speed & Style.

Tale è la passione del viaggio nell’Ottocento che nasce un prodotto librario nuovo: la guida turistica. A partire dal 1837 vengono pubblicate le Murray's Handbooks for Travellers, che non si occupano solo del continente europeo, ma anche di parti dell’Asia e dell’Africa del nord. La prima tra queste guide riguarda l’Europa del Nord e culmina proprio nel mondo che Fogazzaro attraversa all’epoca del Diario: la Svizzera.

 2. “Il tempo è denaro”, afferma il credo borghese, e le guide ottocentesche seguono questo principio fondamentale: via le lungaggini storiche, adesione concreta a ciò che c’è piuttosto che a ciò che c’è stato, uso economico del tempo, affidabilità dei dettagli, ottimizzazione – come oggi si direbbe – delle spese e delle fatiche.

Il nuovo viaggiatore, insomma, non assomiglia per svagatezza a Montaigne o per curiosità a Goethe, e non intende neppure spendere interi anni della propria vita all’estero, come i nobili del Grand Tour. È già – invece - il turista moderno, che si dà obiettivi limitati, che ha a disposizione un tempo ridotto, e che sembra fatto in serie. Le guide non si limitano e dirigerlo, ma creano la sua esperienza: gli dicono passo dopo passo quel che è bello, pittoresco, importante, interessante. Gli suggeriscono quando deve aprire la bocca per lo stupore, così come gli spiegano dove deve mangiare e dormire. E anche la letteratura è messa al servizio del paesaggio, dato che ogni luogo ha la sua appropriata citazione:

La maggior parte delle Guide finora pubblicate recano descrizioni compilate da persone che non conoscono i posti, e sono dunque imperfette e piene di errori, oppure sono storie locali, scritte da residenti che non discriminano a sufficienza tra ciò che è specifico del posto, e ciò che non vale la pena di vedere, o che può essere visto egualmente bene se non meglio anche altrove. Questi secondi autori soffocano i loro lettori con minuti dettagli di storia locale «dai tempi più antichi», e con genealogie delle relative casate principesche etc. I primi invece riducono la loro trattazione a un catalogo di edifici, istituzioni e via dicendo. Dopo averli letti lo straniero resta completamente all’oscuro riguardo alle reali curiosità del posto. Questi libri sono spesso mere ristampe di opere pubblicate anni prima, mai corrette o aggiornate. E che fossero o no accurate all’origine poco conta, perché le trasformazioni prodotte dagli anni passati le hanno rese inattendibili e antiquate.

Lo scrittore di questa guida si è sforzato di confinarsi a descrizioni fattuali di ciò che in ogni luogo dovrebbe essere visto, calcolando di interessare un viaggiatore intelligente, senza abbagliare i suoi lettori con resoconti di tutto ciò che potrebbe essere visto. Ha evitato minuzie cronologiche e invece di riassumere dalle origini ad oggi gli annali di una città, ha selezionato aneddoti locali collegati ad eventi importanti che vi si sono svolti, o a uomini di rilievo che vi hanno vissuto. Ha adottato uno stile il più possibile semplice e essenziale, evitando descrizioni fiorite e superlativi esagerati [...] quando un autore celebre, come Scott, Byron o Southey, ha descritto un posto, si è fatto scrupolo di citarne le parole, ben sapendo quanto la loro lettura sul posto – dove non si hanno in mano le opere di quegli autori – accrescerà l’interesse con cui si guarderanno gli oggetti descritti».[7]

È chiaro dunque che i viaggiatori borghesi ottocenteschi non rinunciano al ritmo moderno, efficiente, della loro civiltà neppure quando viaggiano. A differenza di quegli aristocratici, vanno di corsa persino quando fanno i turisti. Non è un caso che la prima guida della nuova civiltà del viaggio si intitoli Guida del Reno da Magonza a Colonia, libro tascabile per viaggiatori di fretta, e sia pubblicata nel 1828 da quel Franz Friedrich Röhling la cui casa editrice sarà acquisita da Karl Baedeker, il grande concorrente di Murray sul terreno delle guide turistiche destinate a un consumo ampio, e – come oggi si direbbe – di massa.

 3. Così popolare diventa il viaggio che quando non si può praticarlo per davvero, non si rinuncia al «divertimento» che esso può dare, e si trovano due surrogati.

Il primo, se non si può andare dal vicino al lontano, è portare il lontano vicino. Ecco allora le Esposizioni universali, in cui è il mondo stesso a giungere nel cuore della Civiltà Occidentale, col suo bagaglio infinito e babelico di esotismi, innovazioni, stranezze. A partire dall’Esposizione Universale di Londra nel 1851, collocata nel grandioso Crystal Palace ad Hyde Park, comincia una vicenda che riguarda la storia dello spettacolo non meno che dell’industria e del commercio.[8] La seconda alternativa all’impossibilità di viaggiare, è la diffusione di periodici che riportano resoconti e immagini di viaggi altrui. Il viaggio reale è sostituito dal viaggio virtuale, ma l’obiettivo non cambia: la distrazione, l’occupazione del tempo libero con oggetti che mettano in modo la curiosità, lo stupore e giochino sul fascino dello sconosciuto, indirizzandosi ad un pubblico estremamente variegato.

In Italia a impegnarsi in questo tipo di pubblicazioni sono Pomba col «Mondo illustrato. Giornale universale» (Torino, 1844-1846); Sonzogno con «L’emporio pittoresco» (Milano, dal 1864) che nel 1869 assorbirà l’«Illustrazione universale», e col «Giornale illustrato di viaggi» (dal 1878, versione italiana del parigino «Journal des Voyages» nato il 1877).  Ma è soprattutto Treves – che di Fogazzaro diverrà l’editore – a dominare il mercato con periodici come il «Giro del mondo. Giornale di geografia, viaggi e costumi» (1863-1887), «L’universo illustrato. Giornale per tutti» (1866-1873); «L’Illustrazione popolare» (1869-1916).

Come si vede gli anni di fondazione di questi periodici sono i medesimi in cui si situa il Diario che qui pubblichiamo:[9] come poteva Fogazzaro non viaggiare, avendone i mezzi, quando il mondo intero – si potrebbe dire – aveva cominciato a viaggiare attorno a lui?[10]

4. Nei percorsi dei viaggi del secondo Ottocento si incrociano, dunque, tipologie diverse e qualche volta contraddittorie di gruppi sociali e di motivazioni. Il vecchio mondo della villeggiatura aristocratica continua a sopravvivere, nei grandi alberghi dove arrivano bagagli innumerevoli di principesse, stuoli di cameriere, folle di amici o di cortigiani. Il suo è un tempo lento naturalmente, entro il quale però si insinua il demi-monde di chi viaggia per sfuggire alla sua realtà modesta, e per essere – almeno qualche giorno all’anno – diverso da quello che è realmente. Così appaiono a Fogazzaro quelle «tre o quattro signore» che a S. Bernardino sfoggiano i loro vestiti inutilmente, e si consolano «parlando delle città, dei loro parenti, degli amici che son tutti ricchi e potenti, dei loro appartamenti, della villa, degli equipaggi»: tutte cose – aggiunge lo scrittore - di cui possono disporre giusto nei giorni di villeggiatura in cui ne parlano, perché in realtà non esistono.

Ma persino nel mondo aristocratico qualcosa è cambiato. Alla permanenza in villa, in fondo, la consuetudine del grande albergo oppone una situazione meno stabile, più precaria, più aperta a partenze ed addii. Il primato del viaggio ha toccato anche l’universo apparentemente immobile dell’antico regime. Gli itinerari aristocratici sono inoltre contaminati, attraversati da figure incongruenti, come quelle descritte da Fogazzaro in un delizioso quadretto dedicato a Thusis:  Touristes negli atri con alpenstocks e bagaglio, guide con asini e cavalli nella via, garçons e maîtres d’hotêl poliglotti che svolazzano dappertutto [...] Un signore attempato, due lunghe signorine e un signorino color isabella si fanno issare su quattro cavalloni alti e magri coi loro bravi alpenstocks e tutto come se di lassù avessero a remare o puntare a terra per cacciarsi avanti. Dopo molte risate ed esclamazioni in una lingua che non posso capire, la flottiglia parte.  

Proprio qui appare il protagonista nuovo del viaggio. Un personaggio talmente nuovo che Fogazzaro per definirlo usa ancora il termine straniero di touriste: il “turista”, ovvero l’eroe borghese che si affida alle guide – a quelle di carta non meno che a quelle in carne ed ossa – per diventare nel più breve tempo possibile il protagonista di un’avventura, di una scoperta, di un’esplorazione. E il culto della curiosità da un lato, i residui di romanticismo primo-ottocentesco dall’altro – portano sempre più spesso questo avventuriero del tempo libero non verso la civiltà, la cultura, la dimensione museale e urbana del mondo, ma verso la natura, con le sue vertigini, i suoi abissi e soprattutto i suoi picchi.

 5. Non è dunque un caso che anche Fogazzaro scelga la Svizzera per questo suo viaggio giovanile, che si svolge nel 1868 e che sembra quasi un viaggio di nozze: ventiseienne (è nato nel 1842), ha sposato da appena due anni la contessina Margherita di Valmarana.

La Svizzera è appunto il mondo già scoperto e celebrato da autori romantici che Fogazzaro cita nel Diario, come Michelet, ispirati da un paesaggio che sembra difenderne il popolo dall’incivilimento, e dove ogni piana sembra impennarsi nelle vette, ogni squarcio di cielo sembra un gioco pittoresco di colori.  Ma la Svizzera, e più in generale le Alpi, sono anche approdi turistici privilegiati all’epoca di Fogazzaro perché permettono di praticare una disciplina tutta moderna, nella quale avventura, curiosità, tempo libero perfettamente si intrecciano: l’alpinismo. E proprio negli anni del Diario esce infatti l’Alpine Guide di John Ball,[11] il primo presidente dell’Alpine Club (1857). 

Certo, in Fogazzaro il tema acquisterà una risonanza filosofica e religiosa che i «turisti» non immaginano, incarnandosi nel titolo efficace di uno dei suoi libri: Ascensioni umane.[12] Ma leggendo le pagine del Diario converrà riflettere sulla capacità del giovane scrittore di immergersi un un’antropologia internazionale, attualissima, destinata a una straordinaria fortuna novecentesca. Il viaggio, anche dopo il Diario, sarà una delle fonti privilegiate della scrittura fogazzariana,[13] e uno dei suoi temi principali. Non a caso. Dalle pagine giovanili agli ultimi romanzi – sempre segnati dalle dislocazioni dei personaggi – Fogazzaro dimostra di capire che il viaggio è la forma privilegiata della modernità, nel suo momento produttivo, come in quello ricreativo, nelle sue conquiste come nelle sue miserie. Scoperte e abbandoni, relazioni e solitudini sono gli effetti di un nomadismo che sembra non fermarsi mai, e nel quale tutto diventa provvisorio, incerto, fugace. 

Anche la felicità assomiglia sempre più a un paesaggio appena intravisto dai finestrini di un treno in corsa, e subito dissolto nell’oscurità di una galleria.

 

[1] Corbin, A. (a cura di), L'invenzione del tempo libero, 1850-1960, Roma-Bari, Laterza, 1996.

[2] Le peintre de la vie moderne è una raccolta di articoli pubblicati da Baudelaire sul «Figaro» del 1863. Se ne veda l’ottima edizione italiana con testo a fronte, a cura di G. Violato, Venezia, Marsilio, 2001.

[3] G. Carducci, Inno a Satana, vv. 169-192, in Id., Poesie, a cura di W. Spaggiari, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 43-54.

[4] C.I. Petitti di Roreto, Delle strade ferrate italiane e del miglior ordinamento di esse. Cinque discorsi, Capolago, Tipografia Elvetica, 1845.

[5] Pubblicato sulla «Revue Nouvelle» del 1 maggio 1846, poi raccolto ne Gli scritti del Conte di Cavour, Bologna, Zanichelli, 1892, vol. II, pp. 3-54.

[6] G. Carducci, Delle Odi Barbare (1877), II, Alla stazione in un mattino d’autunno, vv. 5-32, in Id., Poesie cit., pp. 188-193.

[7] A Hand-Book for Travellers on the Continent, 2nd Edition, Augmented and Carefully Revised, London, Murray & Son, 1838: Preface to the First Edition (1837), pp. III-IV:  «Most of the Guide Books hitherto published are either general descriptions compiled by persons not acquainted with the spots, and are therefore imperfect and erroneous, or are local histories, written by residents who do not sufficiently discriminate between what is peculiar to the place, and what is not worth seeing, or may be seen equally well or to greater advantage somewhere else. The latter overwhelm their readers with minute details of its history " from the most ancient times," and with genealogies of its princes, &c. : the former confine themselves to a mere catalogue of buildings, institutions, and the like; after reading which, the stranger is as much as ever in the dark as to what really are the curiosities of the place. They are often mere reprints of works published many 3-ears ago, by no means corrected, or brought down to the present time ; and whether accurate or not origi- nally, are become, from the mere changes which each year produces, faulty and antiquated. / The writer of the Hand-book has endeavoured to confine himself to matter-of-fact descriptions of what ought to he seen at each place, and is calculated to interest an intelligent traveller, without bewildering his readers with an account of all that mai/ be seen. He has avoided chronological details ; and instead of abridging the records of a town from beginning to end, he has selected such local anecdotes as are connected with remarkable events which have happened there, or with distinguished men who have lived there. He has adopted as simple and condensed a style as possible, avoiding florid descriptions and exaggerated superlatives [...] whenever an author of celebrity, such as Scott, Byron, or Shelley, has described a place, he has made a point of extracting the passage, knowing how much the perusal of it on the spot, where the works themselves are not to be procured, will enhance the interest of seeing the objects described».

[8] Cfr. la ricchissima ricerca di G. Abbattista, Umanità in mostra. Esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880-1940), Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2013.

[9] E il Diario fogazzariano non manca di registrare questa produzione: si veda il 14 agosto il riferimento all’«Illustrazione universale» di Sonzogno (l’«Illustrazione Italiana» di Treves nascerà solo dopo il Diario, nel 1875).

[10] Per un quadro generale cfr. R. RICORDA, La letteratura di viaggio in Italia. Dal Settecento a oggi, Brescia, La Scuola, 2012.

[11] London, Longmans, Green and Co., 1863-1868.

[12] Milano, Baldini & Castoldi, 1899.

[13] L’esempio migliore è quello del Taccuino bavarese (Werkbüchlein, 1885), a cura di L. Morbiato, Vicenza, Accademia Olimpica, 2011.

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