Il racconto

In punta di piedi

 

1979

Non ce la faceva, Emma, a stare ferma, il banco della chiesa non riusciva a contenerla. Seduta, non smetteva di far dondolare le gambe, in piedi non poteva fare a meno di spostare il peso da un ginocchio all’altro. Ogni tanto accennava un plié. Sua sorella le lanciava furibonde occhiate spazientite, mentre sua madre pregava per quella figlia indiavolata. La messa della domenica pareva interminabile. Era fatta per ballare, lei. Era fatta anche per credere, ma non nei riti come quello, così noiosi e prevedibili. Credeva nel vento, nelle stelle e nella libertà di movimento. Non vedeva l’ora di iniziare l’Accademia, e ogni tanto toccava la tasca dei jeans per accarezzare la lettera di ammissione.

Al momento dell’eucarestia, chiese il permesso di aspettare fuori, sul sagrato. Non era la prima volta. La madre acconsentì, gli occhi fissi al crocefisso sopra l’altare.

La piazza era deserta, satura del calore estivo di mezzogiorno. Emma cominciò a saltellare sui ciottoli davanti all’ingresso della cattedrale, che componevano un mosaico geometrico, evitando con cura quelli scuri. L’intreccio del bianco e del nero la affascinava e presto ne fu totalmente assorbita. Pensò a Papà, che sarebbe stato orgoglioso di lei. Si vide già grande, una famosa ballerina. Si sognò innamorata di un uomo con i capelli rossi e la barba, proprio come il babbo.

Proprio come il signore elegante che le era apparso di fronte, sbucato dal nulla.

Indossava un paio di occhiali da sole a specchio.

Emma si guardò intorno. Erano soli. Scostò i capelli sudati dalla fronte e si avvicinò, incuriosita. Vide la propria immagine riflessa nelle lenti.

L’uomo sorrise, e con un rapido movimento si tolse gli occhiali, svelando iridi azzurrissime. Emma rabbrividì. Era uno sguardo gelido, lontano. Non era il suo papà, no.

Fu accecata da un bagliore, un repentino riflesso di luce. Subito non capì.

Poi scorse la lama del coltello.

 

 

2020

Fuori è ancora buio, quando spinge il carrello nell’ascensore, per portarsi all’ultimo piano. Tre ore per completare le pulizie degli uffici prima dell’apertura. Un lavoro che le permette di passare inosservata.

Non ha mai voluto far altro che ballare, nella sua vita, e lo ha fatto. Ma sempre da sola, in privato. Non sopporta essere guardata, in casa sua non esistono specchi. Le ricordano un paio di occhiali, e l’ultima immagine di sé, intatta.

Nelle ormai rare occasioni in cui la lunga cicatrice che le attraversa il viso inizia a pulsare e diventa rovente, in corrispondenza dell’occhio mancante, Emma si ricorda chi è. Scorrono i fotogrammi di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Di quello che avrebbe dovuto essere. Fa male, e non è un dolore fisico.

Oggi però è in pace, libera: l’attesa è finita. Lui è morto, schiacciato dalle sue condanne nella cella in cui è rimasto confinato a vita.

Ha sempre sognato un pas de deux, ma non se lo è mai concesso, non ha mai ballato con un uomo. Nella sua mente, ogni figura maschile si è trasformata nel suo aguzzino, e la sola idea l’ha sempre irrigidita, mutandola in statua.

Sale sul soppalco che accoglie la saletta d’attesa e si toglie le scarpe. Le note di Tchaikovski partono soffici dal cellulare.

Il corrimano della ringhiera diventa una sbarra. Emma si appoggia, mettendosi in première. Alla battuta giusta, inizia a danzare leggera sul parquet. Quando sfiora il carrello delle pulizie, afferra al volo la scopa, continuando a volteggiare.

Gli uffici scolorano, scompaiono. La scopa si trasforma, Emma non è più lì.

È Aurora, nel suo castello, che balla accompagnata dal suo principe.

Non ha più paura.

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