Il racconto

Incendio doloso (1980)

 

«Ecco, ragazza, prendi questa scopa e dai una bella pulita.» Il mio nuovo capo mi dà della ragazza anche se ho cinquant'anni suonati. Decrepito, leggeri capelli candidi svolazzanti gli pavesano la pallida testa macchiata e i suoi artigli adunchi ghermiscono quella scopa, che mi porge come una katana. Una stilettata mi galvanizza il cervello, una scossa elettrica e una domanda che rimbomba: Che sia lui?

Quarant'anni fa, ero una bambina. Picchiò alla nostra porta. Segaligno, vestito di nero, un corvo con il muso da volpe. Una sorta di spaventoso ibrido, mitologica chimera. Papà a sentire la sua voce sbiancò. Nasconditi! Non feci in tempo. In tre entrarono come delle furie, gettarono a terra piatti, bicchieri, ogni oggetto fragile in frantumi. Poi lui, con quel ghigno da denti rovinati dal fumo, prese la scopa nell'angolo e me la porse: «Ecco, ragazza, dai una bella pulita». L'afferrai tremando e lo guardai abbacinata sferrare un pugno in faccia a mio padre. E un fiume rosso dalle narici. Poi in due lo trascinarono via, verso la vecchia baracca. Quell'uomo, uscendo, mi scompigliò i capelli alla maniera di uno zio d'America. Dal pantalone strappato notai una brutta ferita; un sorriso a mezzaluna sul polpaccio. I segni di una bocca, forse di animale, che aveva voluto lasciargli il suo marchio. Mi chiusero a chiave. Papà non era un partigiano; erano andati a scuola insieme, e quel gerarca aveva sempre invidiato la sua intelligenza, la brillante carriera di scienziato. Udendo l'ululato del suo dolore mentre lo torturavano, cominciai a spazzare con rabbiosa foga, a ripulire la casa da tutti quei cocci. La sera se ne andarono e lo chiusero lì, li sentii ridere nella notte, sguaiatamente, e parlare di donne, di vino. Sarebbero tornati l'indomani, per ricominciare, ma avevano fatto un errore, gli avevano lasciato i suoi occhiali. Al mattino, papà che conosceva bene gli specchi ustori di Archimede appiccò un piccolo fuoco, che montò in uno spaventoso incendio. Lo trovarono rannicchiato in un angolo, carbonizzato, con gli occhiali ancora intatti, protetti sotto di sé come se volesse lasciarmeli.

Il mio lavoro è fare le pulizie, non ho studiato. La vita si è fermata a quel giorno. Inghiottisco un boccone spropositato, e tremo, e vorrei fuggire da questa casa, anche se dimenticare è escluso. Spazzo con vigore ogni grammo di polvere, proprio come allora. Usare la scopa è l'unica mia abilità. O forse no. Tocco i vecchi occhiali nella tasca e una sensazione di gelo si spande nelle dita. Sarà quell'uomo, questo vecchio decrepito ossuto, che fa quasi pena?

Mi offre lui stesso l'occasione della verità. «Ehi ragazza, vieni a dar sollievo ai miei calli.» Preparo una bacinella per il pediluvio, siedo a terra e gli arrotolo i pantaloni. Ha dita deformi, e polpacci glabri. Mentre tiro su la stoffa tremo; lui ha gli occhi socchiusi e non se ne accorge. E la vedo, quella cicatrice a mezzaluna, col suo sorriso di lupo. Stride qualcosa, in me, un pensiero non lubrificato.

Nel pigro meriggio, la villa guizza di gaie lingue di fuoco. Il vecchio sta facendo il sonnellino e si accorgerà solo troppo tardi di essere in trappola. Un corto circuito, una sigaretta appoggiata male nel posacenere. L'energia del sole, ingabbiata da una vecchia lente, però, è qualcosa di magico, da vero maestro. Osservo da lontano quel fumo nero, che tra poco qualche romantico ammiratore delle forme delle nubi noterà tingere il bel cielo limpido. E darà l'allarme. Stringo, in tasca, la montatura metallica – ora calda – e mi incammino piano, per una passeggiata al fiume.

 

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