Il racconto

Alle volte si vuole solo scrivere per tirarti su dalla routine di tutti i giorni. Scrivere qualcosa per non pensare a come ti ha trattato la signora a cui hai dato per sbaglio una mela bacata.  Scrivere qualcosa per non pensare a quella doppia vita che conduci fra famiglia e amore. Scrivere qualcosa per non pensare al lavoro perso. Diavolo se era un lavoro soddisfacente alla fin fine. Eppure il destino ama scherzare, così come i giudici del concorso a cui, finalmente, hai deciso di iscriverti. Alla fin fine la biografia che hai mandato faceva abbastanza pena da giustificare il soggetto dello scritto da mandare. Eppure si prova una vena di fastidio nel dover scrivere di sé stessi. Niente magia, niente spade, niente intrighi. Potrebbe essere un’idea carina trasformare la lotta al tumore in un’epica cavalleresca, così come lo sarebbe descrivere la trasformazione fra Giovanni figlio devoto e Giovanni che sta cercando di costruirsi una propria casa. C’è però quel blocco. Quella ritrosia nel voler esporre troppo sé stessi con allegorie ovvie sotto la propria foto. Qualcosa, però, va prodotto, quanto sarebbe figo fare della metascrittura e scrivere di ciò che si sta scrivendo. E quanto lo sarebbe fare metascrittura sul voler fare metascrittura. La verità è che manco sai cos’è la metascrittura, sembra solo una parola che da un che di rilevante ad uno scritto al momento meh.

Più di mille caratteri sprecati praticamente.

C’è da dire che hai un pessimo rapporto con l’ansia da prestazione, quando sai di dover mandare a qualcuno ciò che hai scritto. Stavolta non c’è un numero rosso di cui non ti frega niente a valutarlo, no. Stavolta sei letteralmente appeso per una mano al dirupo, sotto chi implora, sopra chi sceglie. Fra chi ha la possibilità di vivere della propria arte e chi, in realtà, è meglio rimanga relegato a qualche gioco di ruolo online. Eppure devi smettere di sembrare patetico. Lo sai benissimo, lo odi, lo rifiuti. Hai ventiquattro anni e ogni giorno combatti con le unghie e con i denti per tenerti quel che ami. Hai ventiquattro anni quando la tua vita si sarebbe potuta bloccare a quindici, nella piena consapevolezza che la disgrazia che ti ha colpito è stata solo l’ennesima dimostrazione di forza. Nella piena consapevolezza che i mondi nella tua testa sono meravigliosi, i personaggi che di tanto in tanto rubano la tua gola interessanti, le vicende che li mischiano invidiabili.

Mani sulla tastiera, pronti, partenza, via! Hai ancora mille caratteri.

E cosa si può scrivere in mille caratteri? Quella foto è di prima di tutto il Covid, di quando ancora il duemilaventi faceva ridere. Poi il giullare è diventato boia. Isolato in casa, separato dal ragazzo che amo, le notti passate a piangere dopo aver cercato di tranquillizzarlo. Dopo aver cercato di autoconvincermi che l’avrei rivisto. Mesi senza un abbraccio, mesi senza un bacio, mesi nel silenzio freddo di una casa che non mi accetta davvero. Di una casa che non è mia, ma dove devo stare. Mesi a cercare di educare i bambini del gruppo scout a distanza, ricevendo solo la consapevolezza che i genitori, forse, han più interesse a parcheggiarteli che a farli diventare buoni cittadini. E ad annegare questo dolore, perché il tuo staff doveva continuare ad essere motivato. Mesi in cui ti sei dovuto scontrare con il Telemarketing, con i conati di vomito perché non c’è ansia più grande che telefonare qualcuno che non conosci.

Manca solo una conclusione, una massima, da dare in un centinaio di caratteri. La verità è che questo flusso non porta alla fine, perché può portare, solo ad un inizio. 3600.

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