Il racconto

Don Sebastian de Morra

 

- Smettila di fissarmi o, giuro sul sangue di san Pantaleone, che ti frantumo quel muso da cane!

Con i suoi occhi tondi, nero di pece, aggrappati su di me come le fauci di un lupo sulla carcassa di un cervo, e i suoi pugni, due piccoli torchi che premono sulle cosce e spingono arroganti verso il basso, parrebbe quasi un precettore che, stufo dell’ignoranza da capre dei suoi discepoli, si appresti ad alzarsi per vergarli. Parrebbe. In realtà è solo un volgare nano che ha il cuore, domicilio dello spirito e dell’onestà, troppo prossimo allo sfintere anale, ricettacolo di putridume e lordura. Ha l’animo corrotto. 

- Ridi, saltimbanco, ed esci da qua! Torna a uffizi che più si confanno al tuo piccolo e grottesco corpo subumano. Il tuo sovrano ti aspetta. Dismetti quel mantello amaranto senza maniche, adorno di pretenziose finiture d’oro, e vesti abiti bizzarri, manti sgargianti, cappelli squillanti. Togli dal grifo quello sguardo assorto nei più cupi pensieri e pittura le gote di gaiezza. Il re ha già mille affanni, vuoi tu aggiungere tormento al tormento? Non sia mai! Piuttosto, solleva il tuo monarca, anche se per poco, dalle preoccupazioni che il Cielo ogni dì sulle sue spalle sofferenti posa. Regala vivace letizia e impudica giocondità. Usa la tua lingua sfrontata per rigare di lacrime, sì ma di gaudio!, il volto dell’imperatore.

Non risponde. Non reagisce. Resta lì, a fissarmi inerme, seduto a terra con le corte gambe stese e il busto deforme appoggiato alla parete. Sembra una marionetta abbandonata. La sua altera indifferenza mi indispone e nutre la furia che famelica alberga nei turpi anfratti del mio spirito.

- Scherzo maligno della Natura a cui pure la madre ha voltato le spalle, abbandonandoti con ribrezzo nella rota degli esposti, non farti vincere dalla prostrazione: alza le terga dall’umido pavimento, dileggia la sorte con coraggio, schernisci la vita con sprezzo, ridi in faccia al tuo destino ostile!

Non ascolta. Non insorge. Esausto, si limita a tenere il suo melanconico sguardo fisso nel mio. E io, che una furibonda rabbia mi schiuma dalle budella e mi deturpa il cuore, non resisto e afferro la mela, avanzo di quel misero pasto che il sovrano oggi mi ha concesso, e la scaglio contro al nano. Aimè, le mie brevi braccia mi fanno sbagliar mira e la mela finisce contro alla parete, mandando in frantumi uno specchio.

 

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