Finale scriptor parte seconda

I partecipanti

In onda in anteprima domenica 30 maggio ore 19,00

Nella prima parte della puntata i partecipanti affrontano Il Tweet d'autore e Dieci Parole per me posson bastare
Successivamente i giudici propongono due esercizi: la Roulette russa e Il Falso d'autore.
I partecipanti hanno avuto tre giorni di tempo per compiere gli esercizi e ora li trovate scorrendo la pagina in basso.

Nella seconda parte della prima puntata ci sarà la sintesi dei voti ottenuti, compreso il voto del pubblico a cui potete contribuire votando in alto a destra, e si definirà la classifica finale. Il partecipante che avrà ottenuto il punteggio più alto passerà alla seconda fase.
Nella seconda parte della puntata avremo un ospite che contribuirà con il proprio voto.

Roulette Russa

Tema: Censura
Periodo: Ai tempi dell’Homo Sapiens
Luogo: Eurasia

ANG

Sedetevi comodi miei cari, perché voglio raccontarvi una storia che vi lascerà a bocca aperta.

Torniamo indietro di diversi millenni, in una fascia di terra equidistante dall’altopiano iranico e il letto del fiume Tigri. Potrei parlare di “Mesopotamia” ma al tempo di cui voglio narrarvi questi nomi ancora non esistevano; a dirla tutta, non esisteva alcun vocabolo: l’uomo si esprimeva perlopiù attraverso gesti e versi gutturali.

Ed è proprio con un verso che ha inizio la nostra storia.

Ugh!” sussultò Ang, lasciando cadere la pietra con cui stava incidendo la roccia.

Un uomo si ergeva di fronte a lei; alla vista dell’immagine scolpita sbarrò gli occhi e batté fragorosamente i piedi a terra in un impeto di collera, mentre indicava con disappunto l’opera di Ang.

Urlava: “Uh gah?” che, tradotto più o meno fedelmente, significa “Cosa hai combinato, disgraziata?”

Ang raschiò con violenza il graffito fino a cancellare l’immagine raffigurata, si alzò con veemenza e raggiunse l’ingresso. Ad attenderla c’era Grug in persona, incredulo e rancoroso.

Li avvolse un silenzio imbarazzante, in netto contrasto con il chiasso fascinoso della fauna selvatica: bovidi, carnivori e, naturalmente, i grandi sauri.

Come, come?” Penserete. Vi prego di continuare ad ascoltare, tutto apparirà più chiaro.

Voi tutti avrete senz’altro studiato che, nella preistoria, l’uomo era solito realizzare graffiti e pitture rupestri; ciò che non sapete, però, è che fu proprio Ang la prima a sperimentare questo tipo di arte.

Fin da piccola era insofferente allo stile di vita delle altre raccoglitrici: spesso sgattaiolava fuori dal gruppo per lanciarsi in qualche avventura solitaria alla scoperta del mondo magnifico e inesplorato. Sulla via del ritorno, era solita riprodurre sulle rocce ciò che aveva appreso.

Col tempo, questo suo talento venne notato e apprezzato dai suoi simili, che intravidero nelle sue raffigurazioni la speranza di imbrigliare le anime degli animali assicurandosi un importante vantaggio durante le battute di caccia.

Ma Grug, il più forte di tutti, temeva che raffigurare i sauri avrebbe fatto infuriare quelle creature maestose e temibili: per scongiurare l’annientamento del popolo, vietò la loro raffigurazione.

Sebbene non ne capisse il motivo (non dimenticate che l’intelligenza dell’uomo era ancora agli albori della sua evoluzione) Ang nutriva un profondo senso di costrizione di fronte al divieto di esprimere liberamente il proprio istinto creativo.

Non che fosse così lungimirante da voler realmente tramandare la storia del suo popolo ai posteri; molto più genuinamente, Ang voleva riprodurre con fedeltà ciò che ogni giorno ammirava con i suoi curiosi occhi.

Ma quell’assurda regola era un impedimento che non tollerava e decise di ribellarsi.

Continuò a raffigurare dinosauri: di notte, di giorno, di su, di giù, noncurante di accrescere, giorno dopo giorno, la collera della sua gente.

Dopo l’ennesima sfuriata Grug non ebbe scelta: la bandì, così che non potesse più rappresentare un pericolo.

Affranta, Ang scappò a est, verso quelli che un giorno sarebbero stati conosciuti come Monti Zagros.

Per secoli l’umanità convisse con i sauri, rispettando ossequiosamente il divieto di Grug.

Pensate a ciò che avete sempre saputo: l’uomo non ha conosciuto i dinosauri, estintisi ben prima della sua comparsa. Ma se così non fosse? Se la verità ci fosse stata nascosta?

Forse, un giorno, quando Ang sarà stanca di scappare e troverà qualcuno disposto ad ascoltarla, si siederà e realizzerà la più bella delle sue opere, mostrandoci ciò che ha imparato in tutto questo tempo.

 

La caverna

Tunzu-Tunzu spinse con forza Turzu-Turzu. Le mani sporche di fuliggine impressero una macchia nerastra sul viso di quest'ultimo. Erano giorni strani, la terra un tempo amica era diventata quasi ostile. Tremori e ruggiti dal profondo del suolo e nelle notti come boati assordanti nel buio. Fenditure e spacchi nella roccia, ovunque un senso di malessere. Gli animali fuggivano in branchi. Tunzu-Tunzu sentì la saliva rugliare nello stomaco. Aveva fame e quello stupido di Turzu-Turzu gli stava impedendo di evocare gli dei della caccia. Invano cercò di spiegare, ma i suoi gesti erano goffi e incomprensibili. Turzu-Turzu si rialzò massaggiandosi il volto barbuto e ispido. Brandiva a sua volta un pezzo di tizzone spento. Gridò e si dimenò poi cominciò a imbrattare la scena di caccia che Tunzu-Tunzu stava faticosamente disegnando sulla parete rocciosa. La caverna era disadorna, solo le pitture rupestri sembravano quasi danzare fra le ombre, ma la corsa dei cervi e le lance scagliate stavano venendo brutalmente cancellate da macchie di fuliggine e raschiature. Tunzu-Tunzu non capiva. Perché la scena non andava bene? Cosa stava cercando di fare Turzu-Turzu? L'amico di un tempo era diventato ostile e si ostinava a cancellare i suoi disegni. Tunzu-Tunzu cercò ancora di tracciare un'antilope col pezzo di legno combusto che aveva fra le mani, ma lesto Turzu-Turzu si affrettò a impiastricciare il disegno con il fango. L'uomo cercò a sua volta di farsi capire, ma invano. Come spiegare il sogno della dea? Quando ancora non esistevano parole l'unica alternativa era l'azione. Dovevano fuggire anch'essi e non perdersi nella speranza delle prede e del buon cibo. Turzu-Turzu afferrò il tizzone dalle mani del compagno e lo scagliò lontano. Non era più il tempo di perdersi dietro a inutili pitture. Come a rafforzare il pensiero di Turzu-Turzu la terra tremò e un ruggito lontano agghiacciò gli uomini. La pelle robusta e temprata rabbrividì e i due strinsero i pugni come a doversi difendere. La dea aveva dato un segnale, era ora di abbandonare la caverna.

IL CACCIATORE CHE VIDE I FUOCHI NEL CIELO

I rami dei cespugli tremolarono e una testa scarmigliata apparve, si nascose e di nuovo venne fuori. La scura criniera si confondeva con una barba ispida che copriva il collo e si ramificava sul petto. L’uomo fiutò l’aria dilatando sottovento le narici e uscì allo scoperto. Era tozzo, lievemente curvo e con gli occhi incavati nel cranio. Le braccia nerborute uscivano dalle spaccature laterali di un corto sacco di pelliccia e una mano stringeva una lancia dalla punta di selce.

Si accostò al ciglio della scarpata e vide che l’erba e le siepi di nocciòlo erano calpestate e divelte. S’inginocchiò, avvicinò la faccia alla terra e si mise ad annusarla. Grugnì, si aggrappò alle radici di un tozzo abete ricurvo e scese lungo il pendio che digradava verso i banchi di sabbia dei prati acquitrinosi del Grande Fiume.

Si fermò a un passo da un’enorme impronta e tracciò un cerchio con la punta della lancia. Poi tirò fuori un bulino da una sacca di pelle, si accostò alla parete di roccia e vi incise un animale con gobba, grosse zampe e zanne ad arco. Infine, coprì l’incisione con il palmo della mano e subito dopo si batté il pugno sul petto.

Kuna” mormorò.

Quando tornò al villaggio, la notte aveva coperto il cielo con il suo manto di velluto e gli uomini e le donne si erano già radunati intorno al Fuoco Sacro che crepitava e sprigionava serpenti dorati così alti da tenere lontano gli antichi spiriti. Un uomo dalla criniera rossa e una pelliccia d’orso grigio sulle spalle uscì dal fondo di una caverna, indicò una giovane donna e con un carboncino le abbozzò sulla schiena il contorno di una renna che ornò con del gesso per rappresentare il vello invernale e con un’asticciola ocra per tratteggiarne il cuore.

A un suo cenno, la Vecchia Madre gettò un fascio di ginepro tra le fiamme e la giovane donna si mise a terra carponi e cominciò strappare l’erba con le mani.

L’uomo dalla criniera rossa prese un bastone dalla punta annerita, toccò la statuetta bianca che la Vecchia Madre teneva sopra la testa, girò intorno alla sua preda e la colpì lasciandole una lunga striscia nera sul cuore ocra.

La giovane donna emise un rantolo, si accasciò scossa da un tremore e subito un clamore di voci si levò tutt’intorno.

Fu allora che l’uomo con gli occhi incavati uscì dall’ombra trascinandosi dietro la zanna del mammut che aveva ucciso quel giorno. Si fece avanti tenendo le spalle larghe, esibì il suo trofeo e, sul fianco di un grosso masso rischiarato dal fuoco, disegnò una scena di caccia: un uomo con la lancia che trafigge un grosso mammut.

Mostrò anche il palmo della sua mano e si batté il petto con tale forza che tutti trattennero il fiato.

Kuna!” uscì dalla sua gola.

Puntò il dito contro l’uomo dalla criniera rossa, corrugò la fronte e scosse la testa. Poi rappresentò la Sacra Terra (una donna con un grande ventre e sottili braccia piegate sul petto) e la deturpò con lunghi segni neri.

Quando tornò a voltarsi, la Vecchia Madre digrignò i denti e levò un grido da animale ferito, le donne coprirono gli occhi dei più giovani e un vecchio cacciatore gli si scagliò contro come una furia, gli strinse il collo e lo colpì al petto con un pugnale d’avorio.

L’uomo con gli occhi incavati vacillò, piegò le gambe, sputò un fiotto rosso e sentì venir meno le forze. E, mentre la sua anima scivolava fuori dal corpo e la sua opera veniva annerita dal fuoco, capì che i bagliori che vedeva non erano altro che i lontani fuochi che temerari cacciatori di mammut come lui accendevano dopo una giornata passata negli ampi prati del Grande Cielo.

Falso d'autore

Genere: Manuale di Cucina

Periodo: Inizi ‘900

«Se dico semplicemente «i Dolori» vi è la possibilità che il termine sia male interpretato; si potrebbe intendere un singolo dolore - casi separati di dolore - mentre io voglio un termine che esprima le possenti astrazioni che si incarnano in tutte le singole sofferenze del cuore umano; e vorrei presentare queste astrazioni come personificate, cioè rivestite degli attributi umani della vita, e con funzioni prettamente mortali. Chiamiamole perciò "Nostre Signore del Dolore".
Le conosco a fondo e ho percorso tutti i loro domini. Sono tre sorelle di un'unica misteriosa famiglia; e le loro strade sono ben distinte, ma il loro regno non ha confini.
Spesso le ho vedute conversare con Levana e, talvolta, di me stesso. Parlano dunque? Oh, no! Fantasmi possenti come questi disdegnano le limitazioni del linguaggio. Essi si esprimono con accenti umani quando risiedono nel cuore dell'uomo, ma tra loro non passa voce né suono; un eterno silenzio regna nei loro domini.
Esse non parlavano, mentre conversavano con Levana; non bisbigliavano; non cantavano; sebbene spesse volte abbia pensato che avrebbero potuto cantare, poiché sulla terra avevo udito i loro misteri spesse volte decifrati dall'arpa e dal cembalo, dal flauto e dall'organo. Come Dio, di cui sono le ancelle, esse esprimono il loro piacere non con suoni che periscono e con parole che si disperdono, ma con segni in cielo, con mutamenti sulla terra, con palpiti in fiumi segreti: blasoni dipinti sulla tenebra e geroglifici tracciati sulle tavolette del cervello.
_Esse_ roteavano confusamente; _io_ leggevo i loro passi.
_Esse_ telegrafavano da lungi; _io_ decifravo i loro segnali. _Esse_cospiravano tra loro; e sugli specchi dell'oscurità il _mio_ occhio, seguiva i loro complotti.
I simboli erano i loro; le parole sono le mie."

FILETTI DI SIGNORE DEL DOLORE ALLA BRACE

A differenza della scadente carne di “dolore comune”, la carne di “Signora del dolore” è destinata a palati ben più raffinati.

Avendo avuto spesso il piacere di cucinare tale pietanza, mi permetto di consigliarla caldamente, sebbene so che molti esclameranno: “Oh, che pranzo ridicolo!”

Anzitutto, è bene precisare che cacciare le Signore del dolore richiede una certa dose di astuzia e una buona esperienza, pertanto non v’è da stupirsi se spesso i macellari ne sono sprovvisti.

Una volta individuate e decifrate le tracce dei loro passi, bisogna andare a tentone, nella speranza di intercettare uno dei loro richiami appena percettibili, nei pressi di una tana. Anche a questa distanza, tuttavia, riuscire ad apprezzarli non è semplice.

Comunque, se tali ostacoli non vi spaventano, ecco il segreto per una prelibatezza sì amara e pungente, ma, a gusto mio, squisita.

RICETTA PER 4 PERSONE

Filetti di Signore del dolore, n.3

Olio di Levana, cucchiaiate n. 2

Accento umano, un pizzico

Sofferenza in polvere, grammi 10

Battete i filetti fino ad ammorbidirli completamente, marinateli con una cucchiaiata di olio di Levana, poi cuoceteli alla brace.

In una scodella, mescolate la sofferenza in polvere colla cucchiaiata di olio in avanzo. La miscela si presterà a guarnizione una volta terminata la cottura.

Personalmente consiglio di non insaporire ulteriormente. Tuttavia, per i palati più avvezzi ai sapori dolci, l’aggiunta di un pizzico di accento umano renderà la carne più apprezzabile, se non m’inganno.

Coll’esperienza e una buona dose di pazienza riuscirete a scoprire tutti i segreti di tale piatto.

Nota: in risposta a coloro secondo cui la salubrità di detta pietanza sia da mettere in discussione rispondo che, a mio modesto parere, il duraturo senso di pienezza che, garantisco, permane per diversi giorni, ridimensiona notevolmente l’iniziale senso di nausea.

 

 

«Se dico semplicemente «Gli odori» vi è la possibilità che il termine sia male interpretato; si potrebbe intendere un singolo aroma - casi separati di sapori - mentre io voglio un termine che esprima i magnificenti gusti  che si incarnano in tutte le singole prove dell'umano cucinare; e vorrei presentare queste degustazioni  come provate, ragionate e sperimentate affinché abbiano funzioni perfettamente esperienziali nella fruizione della cucina tradizionale.

Chiamiamoli perciò Aromi acciocché ricordino l'armonia fra le varie pietanze e gli ingredienti  tutti.

Li conosco appieno e a fondo e ho percorso con le papille gustative tutti i loro usi e le ricette ove dominano o vengono dominate.

Sono parenti di una grande e misteriosa famiglia: le spezie. Il loro regno non ha confini. Spesso le ho viste utilizzate in funzione meravigliosa e strana e ho avuto sentore di profumi esotici e difformi dal comune cucinare eppure, infine, il manicaretto giunge a tavola ben condito e ben acconciato.

Un'unica misteriosa famiglia, le loro strade sono ben distinte, ma le spezie si esprimono con accenti ed effluvi accattivanti, ti avvolgono e ti lusingano ed è di una particolare e celeberrima spezia che vorrei parlarvi, cari miei lettori, La Vainiglia con la sua aulente bacca lunga e rinseccolita, ma dal profumo potente e mordace. L'ho gustata nella Panna Cotta come si fa in Piemonte da massaie leste eppure precise e fiere. Si prenda quindi panna fresca del contadino, insieme a fresco latte, zucchero e si addensi il tutto con la colla di pesce che allo spaccio vi avranno fornito insieme alla bacca di vainiglia.

Venga utilizzato un pentolino in rame e la fiamma bassa per far sì che gli ingredienti tutti possano danzare un ballo lento fatto di profumi e promiscuità.

In cucina si spande, e sembran quasi parole sussurrate, le note carezzevoli della vainiglia che langue nel biancore del latte e della panna. Si versi il tutto in uno stampo di rame anch'esso e si metta in credenza a raffreddare. E come altri aromi, come altre spezie, famiglia grande e mai sterile si condisca il budino ben solidificato con una bruciatura di zucchero, un fine caramello ambrato e lussurioso come un miele da mani umane creato.»

CONFESSIONI DI UN GASTRONOMO IMPENITENTE

Se scrivo semplicemente “l’arte del mangiare” qualcuno potrebbe filosofeggiare che la mia è un’opera di dileggio o peggio ancora una birbonata. Lascerei forse intendere che esista un solo modo di saziare l’umano appetito sebbene il mio intento sia appunto scovare un termine che sancisca le singole forme di questo dispettoso bisogno che ci tiene in catene. Sappiamo, infatti, che l’essere umano non solo vuole che il suo cibo sia buono da mangiare, ma che sia anche buono da pensare, perché, fra tutte le cose di cui si nutre, vi sono le immagini e i bei ricordi. Ecco allora che vorrei presentarvi queste mie astrazioni come personificate. Chiamiamole pure Scacciadigiuno, Stuzzicappetito e Gaudioalpalato. Tre monelli che si danno di gomito per rendere questo nostro supplizio una vera delizia. A dire il vero, loro favellano solo con Bacco, figlio di Giove, e Como, dio delle mense, ma sulla Terra esprimono i loro piaceri con note di gusto, pizzicori sul palato e trionfi di dolce e salato che danno nutrimento e pascolo al nostro mortale fardello. Perché non pensare, per dare un assaggio, alla fragranza dello zucchero e della cannella quando il coltello rompe la crosta brunita dell’arrosto; agli aromi dei fegatini di pollo con cipolle dorate e delle carni di lepre con pappardelle larghe un dito; alla succulenza dello storione in gratella con lardelli di lardone conditi con sale e pepe; al sapore di bacio dei pasticcini di pasta di beignet decorati con panna (da domare con la frusta!).

A essere onesti, questo non è solo uno scritto di cucina, ma una raccolta d’immagini che prende alla gola come un vinello che t’inebria senza mai tradirti.

Ora pongo fine a questa mia ciarlata non senza tributare un elogio e un ringraziamento ai convitati e agli anfitrioni che amano il buon cibo e a coloro che oggi sono alle prime armi, ma che un domani saranno il traino di questa sfiziosa arte.

Tweet d'autore

140 caratteri, spazi compresi
argomento: razzismo

La cassazione ha deciso: #Traini condannato a 12 anni. L’Italia manda un messaggio ai nazifascisti: #norazzismo in tutte le sue forme!

Siamo tutti razzisti! Stirpe d'Adamo la nostra colpa, d'originale peccato su specie animali.

Il tuo rantolo gratta ancora l’asfalto e anche se i pugni si sono levati per ridarti l’aria, l’odio razziale continua a stringerci il collo.

Dieci parole per me.. posson bastare

Una poesia, un breve racconto, una libera composizione. L'importante è usare tutte le dieci parole. Sono state scelte a caso sulla prima pagina di un quotidiano di oggi. Eccole:
caos,
coraggio,
commessa,
vescovo,
notizia,
perso,
anticipo,
boom,
scontro,
cane

LA FIAMMA DELLA CONOSCENZA

È Anticipo a destarmi dal torpore nel quale sono sprofondato non so più quanti anni or sono; è sempre stato più accorto dei suoi commilitoni.

Un tremito smuove le membra assopite, un sussulto sullo scaffale impolverato.

Percepisco una figura muoversi nell’ombra a passi cadenzati: viene verso di me.

Il vecchio parquet cigola a ogni passo.

Che sia il padrone? No, non può essere. Il vetusto professore è morto da decenni.

Gli donai la conoscenza…

Circospette, le dita nodose dell’uomo si aggrappano a me.

Le pagine fremono.

Avvicinandomi al lume di una vecchia lampada, mi scruta.

Credo sia ora di ripulire questa stanza” sussurra. Il gelo delle sue parole scorre lungo la copertina.

BOOM! Un boato sopraggiunge da pagina 246 e la presa dell’uomo viene meno.

Quando tocco terra una nube di polvere e solitudine si solleva, minacciosa.

L’avventore indietreggia, tossendo.

Ripulire questa stanza? Da me? Io, che sorreggo il peso della conoscenza! Sarò pure un cencio moribondo che marcisce in uno scantinato muffito il cui puzzo nauseabondo trapana le narici e insozza le vesti, ma non merito una tale fine!

L’uomo torna a osservarmi più da vicino; avverte la mia presenza.

La teme.

Un ululato spaventoso e improvviso risuona nella sua mente. Sul pavimento, le pagine iniziano a scorrere, animate dalla disperazione.

250, 266, 282.

Da dove proviene quel lamento? Gli occhi dell’uomo rimbalzano tra una parola e l’altra fino al fondo di pagina 293. Cancro, candela, Cane!

Ah!” emette un gemito soffocato.

Il dizionario è… no, non può essere (vivo?)

Dalla fronte, gocce di sudore scivolano silenziose, e le pagine tornano a scorrere.

Caos!

Come se avessero ricevuto la Commessa da un padrone autoritario e minaccioso, i Vocaboli da pagina 298 a pagina 453 accorrono a risvegliare i propri fratelli. L’uomo, frastornato, inizia a tremare.

Come portavoce del popolo cavalco la sommossa, rincarando la dose.

Mie piccoli, portatori di luce e speranza, io vi invoco! Quest’oggi manderete un messaggio di terrore! Una minaccia incombe sulla cultura, non lasciate che muoia nell’ignavia di un rozzo impostore! Coraggio, sorgete!”

L’empietà del mio ordine aleggia nella stanza.

A uno a uno, i vocaboli lasciano il letto ingiallito della ruvida carta librandosi nell’aria e minacciando il malcapitato, nella speranza che fugga finalmente da qui.

La Notizia della rivolta giunge anche alle ultime pagine, che di rado venivano interpellate anche nei miei giorni migliori.

L’uomo piange, Perso nella disperazione, fra le barbare ingiurie che giungono da pagina 1312.

Lo Scontro è solo all’inizio!” Urlano da pagina 1646 e quando i più temerari si lanciano all’attacco la stanza rimbomba. Il legno del pavimento collassa in più punti, le pareti tremano e l’uomo sembra perdere ogni speranza mentre tenta di sopravvivere alla mia collera.

Questo è il peso della conoscenza!”

Soffocato dal travolgente ardore con cui le mie parole riempiono la stanza, il vile prova dapprima a coprirsi occhi e orecchie, fiducioso di trovar rifugio nella sua scarna ignoranza. Poi, stremato e terrorizzato, si rende conto di non avere altre vie di fuga se non quella di farmi tacere.

In un ultimo, impetuoso sforzo, le mani dello stolto raggiungono infine la carta.

Un fragore assordante, un grido soffocato dalla fatica, poi il silenzio.

Nel buio dell’ignoranza, sobbalzo sotto i passi frenetici dell’uomo.

Sento caldo.

Le pagine si sgretolano, sto bruciando!

Percepisco le insane risate dell’uomo, lieto d’esser sopravvissuto alla ventata di cultura più imponente a cui la sua mente debole abbia mai assistito.

Mi preparo alla fine: una morte indegna, per uno come me.

Poco prima di perdere conoscenza, quella stessa conoscenza che per anni ho portato nel mondo, avverto il messaggio di Vescovo, uno dei pochi ancora presenti.

Risolleva un’ultima volta il mio spirito, nella speranza che qualcosa di me possa sopravvivere in un mondo triste e ignorante.

Muoio.

Anticipo d'ogni male,

notizia sussurrata nella notte,

udita dal vescovo perso

fra scontro d'anime e caos.

Senza coraggio l'uomo

del Santo Padre la confessione

ode e perdona,

ma nel cuore

come un Boom d'agonia

per la ferale azione commessa:

l'aver battezzato un cane.

UN BUON CRISTIANO NON MUORE DI DOMENICA

Ecco l’ultima trovata del nostro Vescovo” borbotta l’uomo con lo spolverino e gli occhiali rettangolari. “A partire da domani, sarà severamente vietato morire di domenica.” Lancia un’occhiata alla commessa che, anziché dargli corda e commentare la notizia, lo rimbrotta in malo modo: “Prima di sfogliarlo, lo deve comprare il giornale. Mica c’è scritto Biblioteca qui fuori.”

L’uomo drizza la schiena, si ficca una mano in tasca e cava fuori una moneta che appoggia sul piattino accanto alla cassa. “Questo è l’anticipo e, se mi piace quello che leggo, ci metto la differenza; altrimenti avrò perso cinquanta centesimi.”

La commessa scuote la testa, scappuccia la biro e scrive la parola “caos” dentro le caselle di un cruciverba.

Una signora con acconciatura da diva, pelliccia vaporosa e Carlino sottobraccio spunta dal reparto cosmetici e ancheggia verso la cassa.

E se ti scappa di morire di domenica?” butta lì, spalmando una carezza sulla testa del cane.

L’uomo picchietta la pagina del quotidiano.

Se ti sei registrato come buon cristiano all’Ufficio Anagrafe, quelli dell’Ufficio Decessi Preventivi hanno già aggiornato la tua data di morte.”

Questa è bella! Certo che ci vuole proprio un gran coraggio a imporre una cosa del genere” ribatte la pseudo-diva, “per non parlare poi dello scontro di vedute con chi cristiano non è.”

La commessa solleva la testa e batte le ciglia quasi a volersi sintonizzare solo in quel momento con le note della conversazione. “E perché diavolo il Vescovo ha voluto buttarci addosso questa croce?”

L’uomo si spinge gli occhiali contro la radice del naso e si stringe nelle spalle. “Forse per fare un dispetto al Sindaco che si è inventato la tassa ante mortem per chi trapassa nel weekend.”

Date retta a me” sentenzia la pseudo-diva appoggiando una confezione di tinta per capelli sul nastro scorrevole, “la verità è che si stava meglio quando nessuno conosceva la data della propria morte; la verità è che si campava meglio con un senso di abbandono per compagno piuttosto che con la app Boom che ti ricorda ogni giorno quando devi morire.”

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