Il racconto

La voce della solitudine

Mi sono innamorata una volta, di un uomo senza voce.

Un giorno, molti anni fa, mi svegliai in una cella vuota.

Sola.

Avrei gridato, se avessi potuto.

Le pareti e il pavimento erano imbottite; persino la tazza del water, la brandina e il rubinetto, uniche parvenze di arredamento, erano rivestiti da un qualche materiale che mi impedisse di ferirmi.

o fare rumore?

Chiunque altro avrebbe pensato a un ospedale psichiatrico.

Io pensai alla morte.

Quando nacqui in questo disgraziato mondo, i medici si accorsero subito che qualcosa non andava; dissero ai miei genitori che non avrei mai parlato.

Muta.

Chiariamoci, ho avuto un’infanzia felice e, nonostante le mie difficoltà, ho conosciuto persone incredibili.

Ma ho sempre temuto di non essere sentita.

Come fossi all’interno di una cella imbottita.

Nessuna indicazione del perché fossi lì. Solo il vuoto.

E il mio silenzio.

I primi giorni furono i peggiori. ricevevo regolarmente i pasti attraverso una piccola porticina, ma il mio anfitrione non aveva un volto.

Né voce.

A lungo restai aggrovigliata in una matassa di pensieri. Cosa avevo fatto di male? Sarei mai uscita? Domande senza risposta che ottenebravano la mia mente in un turbinio perpetuo di disperazione e silenzi.

Un giorno, però, un foro nel muro attirò la mia attenzione; appena percepibile al tatto, era abbastanza ampio da consentirmi di sbirciare al di là della parete.

Appoggiai speranzosa il naso contro il muro e scorsi quello che pareva un bicchiere sopra un tavolino. Come se qualcuno vegliasse su di me, in quel preciso istante una mano vi gettò al suo interno un cubetto di ghiaccio seguito da un liquido ambrato. Un intenso aroma di mandorla pervase le mie narici.

Per un attimo, dimenticai dove fossi e sentii di non essere sola.

Pochi istanti dopo, udii le inconfondibili note d’apertura di Per Elisa provenire da un giradischi.

Egoisticamente, decisi che suonavano per me: un gesto d’affetto da parte dell’inquilino della stanza a fianco.

Assaporai, rapita, ogni passaggio di quella musica fino a quando, così com’era iniziata, si dissolse, destandomi dal torpore di una ingenua serenità.

Il bicchiere era vuoto.

Ero sola.

Superai i giorni seguenti con rinnovata forza d’animo, grazie alla prevedibilità di quella che, mi accorsi, divenne presto una routine: ogni giorno, dopo il pranzo, un nuovo cubetto di ghiaccio mi chiamava a sé; eccitata come il primo giorno di scuola, mi gettavo ad accogliere l’inconfondibile aroma di mandorle, seguito dalle note rassicuranti della mia serenata.

L’attesa di quel calore divenne col tempo ossessiva: mangiavo con foga, quasi servisse ad anticipare quell’unico momento di felicità che mi avrebbe permesso di superare un altro giorno ancora. Non appena il giradischi terminava la sua dedica d’amore e il bicchiere tornava a vuotarsi l’agonia riprendeva il suo corso.

La compagnia del mio uomo divenne fonte irrinunciabile di sostentamento: mi immaginavo danzante a passeggiare mano nella mano con lui.

Parlavamo.

Non ero certa che fosse un uomo, ma nessuno mi avrebbe mai convinta del contrario. Lui era giunto fin lì per amarmi.

Per parlarmi.

Quando la polizia fece irruzione, Edoardo Rampelli non oppose resistenza.

Più tardi, mi dissero che era un pluriomicida ricercato da tempo: la sua mente malata traeva piacere dal segregare e torturare le sue vittime, dopo averle osservate a lungo da telecamere nascoste.

Per torturare me, aveva scelto la sua voce.

Una voce che mai ho udito, ma che ancora oggi riecheggia nella mia mente e che, temo, mi accompagnerà per sempre.

Mi sono innamorata una volta, dell’uomo che mi ha rovinato la vita.

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