Il racconto

Afrobeat

È proprio vero: quando stai per morire la vita ti passa tutta davanti agli occhi in un istante. A dir la verità, io gli occhi non ce li ho, ma nel momento stesso in cui ho sentito quel tocco gelido sul mio corpo, ho capito che qualcosa non andava, e nel mio piccolo cervello poco sviluppato la mia breve vita ha iniziato a srotolarsi nitida sin dal suo principio.
Galeotto fu l’afrobeat. Il mio locatore è una signora che voi umani non esitereste a definire stramba, a dir poco. Lei si definisce una digger, una che scava in giro per il mondo alla ricerca di tesori rari. Nel momento in cui ha trovato me era alla ricerca di rari 45 giri in Nigeria. In quel periodo era affascinata dal funk psichedelico e, con la sua fonovaligia in spalla, era partita alla volta di Abuja per scovare, in qualche vecchia cantina polverosa, il disco che le svoltasse l’esistenza. E lo trovò. Un singolo autoprodotto all’incirca una decina di anni prima dimenticato ormai da tutti.
Quanto gelosamente custodisce il suo Wilson, con quale amore ogni volta ne solleva il coperchio e quale stupore la coglie sempre nel momento in cui la puntina tocca il disco. Sono nato proprio in uno di questi momenti di grazia. Grazia e distrazione: per festeggiare il fortunato ritrovamento la mia ospite ha accettato un drink rinfrescato da un solo malaugurato cubetto di ghiaccio, la mia culla. Disattendendo tutte le regole d’igiene lette e rilette su opuscoli e manuali, eccola che incoscientemente sorbisce la sua bevanda ghiacciata, aprendomi la strada verso il suo caldo intestino.
Sono un essere elementare, percepisco poche cose, ma intensamente; non sono capace di elaborare intricati teoremi, ma imparo presto; non ho retine sulle quali la luce possa essere impressa o timpani che, vibrando, trasmettano i suoni, ma ho nervi adatti a coglierne il senso attraverso lo stupore di chi mi ospita. E il mio primo ricordo è un misto di caldi vapori, attutite percussioni, stridenti eco lontane. Erano ciò che lei chiama kora e balafon, strumenti tipici di quella musica che tanto cercava. Era afrobeat, un battito che riconosco come quello del mio cuore, colonna sonora della mia esistenza.
Dal suo caldo intestino, dove tutto era una sensuale percezione ovattata, mi sono avventurato per le autostrade del suo corpo, giungendo infine alle sue mani, strumenti di una sensibilità tale da darmi i brividi ogni volta che, attraverso la sua pelle, potevo conoscere qualcosa di nuovo. Le calde striature del tappetino in sughero, il freddo del braccio d’acciaio carezzato con dolcezza, il muto braille dei solchi dei dischi: tutto era una piacevole scoperta.
Poi, sconsiderato parassita, ho iniziato la scalata finale. Volevo capire se davvero non potessi vedere, se la mia testa fosse realmente una strada senza uscita. Sono arrivato così al suo occhio, rannicchiato nella sacca umida delle sue lacrime. Il mio incessante dimenarmi la faceva piangere senza ritegno. Lei, inguaribile romantica, scambiava la congiuntivite con una sincera commozione per le nuove scoperte.
E poi mi sono sporto, ho saggiato l’aria sconfinando oltre il bulbo oculare, ondeggiando libero, senza più confini.
La libertà è stata la mia fine.
Dalla culla alla tomba: mi addormentano proprio con ciò che fu l’inizio della mia vita, un cubetto di ghiaccio. Sento il gelo che inizia a invadere tutto il mio corpo e poi qualcosa che punge, pizzica, mi ghermisce, sono definitivamente fuori. Non vedo nulla, non sento niente, la fine si avvicina, ma rinasce in me un ritmo di tamburo, ricordo tutto, rivivo tutto.
Poi la puntina esce dal solco, niente più afrobeat.

Seguici

ContaTti

Telefono 351 886 28 90

Edizioni del Loggione srl
Sede legale: Via Piave, 60 - 41121 - Modena - Italy
P.Iva e C.F.: 03675550366
Iscrizione Camera Commercio di Modena REA MO-408292


© ItaliaBookFestival è un marchio registrato Edizioni del Loggione srl