Il racconto

Tra Capo Nord e Saigon

L’estate del 2003 fu una di quelle indimenticabili. Una estate globale, nel senso che mentre fisicamente ero tra le zanzare della bassa Romagna stavo allo stesso tempo nel caldo equatoriale africano e nell’umidità indonesiana, insomma in un clima insopportabile, soprattutto per chi, come me, aveva solo uno scassato e traballante ventilatore per cui ogni andirivieni sembrava l’ultimo.

Vivevo in un alloggio parte di un edificio a forma di parallelepipedo, basso senza tetto e ombra, formato da quattro cubetti, ognuno di una cinquantina di metri quadri. Non saprei dire come fosse orientato il mio, so che quell’estate era diventato un cubetto di fuoco rovente, mentre quello del mio vicino era un cubetto di ghiaccio, un Eldorado. Peraltro, il motore del suo condizionatore era proprio accanto alla finestra della mia camera, perciò la dovevo tenere sempre chiusa per evitare il rumore e l’aria calda di scarico.

Dunque, il mio vicino viveva a Capo Nord mentre io in Vietnam del sud, a Saigon. Quelle notti di sudore, ricordavano il capitano Willard quando in Apocalypse now attendeva la sua missione con le pale degli elicotteri sopra la testa tra fumo e alcol. Oramai rassegnato a una pessima estate nella umidità tra le nutrie e i vietcong, la sera del due agosto, un sabato ricordo, accadde qualcosa di davvero inaspettato: qualcuno suonò alla porta.

«Salve!»

Era l’inquilino del Polo Nord che, asciutto e fresco, esordì dicendo di rammaricarsi del disturbo, ma un malinteso aveva stravolto il suo programma per cui necessitava di chiedermi una cortesia.

«Dimmi…» lo esortai lasciandolo sulla porta.

Sarebbe partito l’indomani per una vacanza di tre settimane con rientro previsto il ventiquattro corrente mese. Sì, disse corrente mese. Ascoltai il suo lungo parlare con un pensiero vagante tra il ma come sei messo, beato te, chi se ne frega e che cavolo vuoi da me? Tentò di giustificarsi, di spiegare il suo imbarazzo e alla fine chiese se potessi, ogni sera, annaffiare le piante, piante a cui teneva moltissimo.

«A dire il vero…» non mi lasciò finire e con un gesto eloquente della mano mi fermò. Con un sorriso tipo paresi disse che avrei potuto bermi una birra ogni sera, il frigo ne era pieno e gli avrei fatto un enorme favore se avessi consumato tutte le derrate alimentari. Sì, disse proprio così, le derrate alimentari.

Il mio film cambiava ambientazione.

Mi fece vedere ogni cosa, mi spiegò ogni cosa. La temperatura era pazzesca. La sera del tre mi consegnò la chiave dicendo di iniziare ad annaffiare solo dal giorno dopo.

Mi ringraziò infinitamente.

Sparì dalla mia vista salutando con la mano nello specchietto retrovisore. Guardai la chiave e dicendomi fosse il caso di provarla subito entrai in nord d’Europa, lo sbalzo termico mi fece sorridere, mi ambientai subito. Aprii il frigorifero e riguardai compiaciuto ciò che il mio gentile vicino mi aveva già fatto vedere. Ne presi una, mi accomodai sulla poltrona davanti al televisore e pensai che ci sarebbe voluta un po’ di musica. A fianco alla tv c’era un piatto Pioneer, un PL-12 D degli anni Settanta. Accanto edificava un’alta catasta di dischi vintage quanto il PL-12. Sulla copertina del primo una mucca pezzata al pascolo mi guardava. La puntina toccò il vinile. Me ne stavo seduto in poltrona con una birra ghiacciata, i Pink Floyd e il condizionatore a palla, sì, quello fu un momento indimenticabile, tuttavia lo fu per un altro motivo: un rumore, un rumore chiaro, distinto, la chiave che girava nella toppa, le luci si accesero e il mio film terminò senza un lieto fine.

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