Il racconto

Il mare è in burrasca e il vento sembra voler strappare la polvere dalla vicina Anatolia per depositarla sulla nostra piccola isola. Un breve volo sull’acqua e la terra cambia nome, lingua e bandiera.

Cielo di piombo e flutti ardesia.

La cicatrice sul ginocchio prude, con un clima così. Le dita grattano mentre la memoria compie il consueto volo vertiginoso. Tolgo gli occhiali, oramai indispensabili, non solo per scrivere, e fisso lo sguardo all’orizzonte, oltre il pergolato e sopra gli ulivi ondeggianti.

Ero sbarcato da giorni e vagavo per l’isola senza trovare quello che facesse il caso mio. In autostop, a piedi, sui rari mezzi pubblici e, negli ultimi tempi, con una bicicletta che avevo comprato dopo aspra trattativa. Non che mi mancasse denaro: l’eredità era stata generosa. Ma la contrattazione era d’obbligo.

La trovai proprio a causa della bicicletta.

Scendevo una delle tante strade bianche che portano dai rilievi al mare, quando un accidente, pietra aguzza, vetro, chissà, stracciò il copertone, mandandomi a capofitto tra i cespugli a lato della strada.

Ne guadagnai graffi, un taglio al ginocchio, vestiti lacerati e un inaspettato, nuovo punto di vista.

Lei era lì.

Nascosto da rovi che ne mascheravano l’entrata, un vialetto ingombro di sterpi portava, tra due filari di cipressi secolari, alla casa che avevo sognato fin dalla partenza.

Abbandonai la bicicletta contro un cespuglio di alloro e mi avvicinai, titubante.

Era abitata? Non pareva.

Poteva esserci qualche occupante abusivo? Forse.

Se fosse sbucato qualcuno a chiedere cosa facessi dentro una proprietà privata?

Sono caduto in bici. Cerco chi mi può dare acqua per lavarmi e disinfettante per le ferite.

Sì. Avrebbe funzionato.

Un fragore di cicale si impastava con la luce del mezzogiorno. La forza di questa miscela mi stordiva. Qualche passo e arrivai all’edificio. Una villa.

I muri calcinati portavano ancora tracce di un ocra antico. Le persiane, chiuse e scrostate, erano state verdi, in tempi migliori.

Un frullo di ali richiamò la mia attenzione: un colombo spiccò il volo da un foro nel sottotetto.

Cercai l’ingresso.

Girando attorno alla costruzione vidi panche di pietra soffocate dalla vegetazione lasciata libera di crescere da tempo. Da molto tempo.

Il portone di legno nodoso era socchiuso. Entrai.

Polvere impalpabile, calcinacci ed escrementi di animali coprivano un pavimento in marmo tinos. I proprietari dovevano essere stati ricchi.

Trovai una vecchia scopa di saggina appoggiata vicino al camino e provai a pulire, cercando di riportare la pietra all’antico fasto.

Mi accorsi ben presto che sarebbe stato necessario molto più di una scopa consunta, per ridare dignità a quella vecchia signora decaduta. Ne ero perdutamente innamorato.

Quella casa doveva essere mia! Grazie ai buoni uffici di un pope comprensivo, trovai i proprietari e un buon accordo.

Così mi sistemai nella villa dove avrei dovuto produrre l’opera che mi avrebbe iscritto, di diritto, tra i favoriti di Calliope. Divenni, invece, il ben remunerato mercenario di un più famoso autore americano. Ghostwriter, direbbero oggi.

Pecunia non olet e non ho rimpianti.

Tra quelle mura e gli ulivi che mi sopravvivranno, ho conosciuto l’amore di una compagna, troppo presto scomparsa, e di due figli affettuosi, ora lontani.

Venuto il momento in cui il corpo esige di fare due conti finali, il prurito di una cicatrice mi pare un prezzo risibile, per tanto privilegio.

Appoggio su un tavolino, con inutile e ingenua premura, gli occhiali che, sento, non occorreranno mai più.

Sospiro e chiudo gli occhi. In pace.

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