Il racconto

COME UNA SPECIE DI SORRISO

La Scopa era un rito quotidiano al Bar dei Pescatori. Come il prete diceva la Messa al vespro tutte le sere alle sei precise, loro tutti i pomeriggi, alle tre precise, mettevano le ginocchia sotto l'unico tavolino del bar; come il prete alla Domenica diceva la Messa alle 10, così loro giocavano al mattino invece che nel pomeriggio. Chi può dire quale rito era più sacro, se la Messa in chiesa o la Scopa al bar? Chi può dire se erano più fedeli i fedeli alla Messa o i giocatori di Scopa alla Scopa?

E anche quel giorno, proprio quel giorno, verso il tramonto, sono tutti e quattro al bar. Salvatore, il padrone del bar, detto Sicilia, perché era arrivato in Romagna che aveva tre anni e ora che ne aveva settantatre, non era ancora riuscito a farsi considerare uno del posto. Poi c'era Fermoposta, il postino del paese, che lasciava la posta al bar perché non aveva voglia di perdersi fra le strade bianche, che tanto prima o poi dal bar ci passavano tutti. Poi c'era Giorgino, che in realtà si chiamava Luigi, Giorgio era suo fratello più grande di dieci anni, ma facevano impressione perché erano proprio identici, ma di due scale diverse, anche se poi crescendo Giorgino aveva superato Giorgio di parecchi centimetri. Il quarto era Benito, di battesimo, ma detto Stalin, per le simpatie comuniste, un ossimoro vivente. Anche quel giorno strano, erano lì a disputarsi il solito bicchiere di vino a Scopa. Perché avevano provato a fare giochi più impegnativi, come la Briscola o il Beccaccino, ma litigavano troppo e dovevano stare troppo concentrati sul gioco. Invece a loro piaceva commentare la televisione mentre giocavano, e con la Scopa si poteva giocare anche col Giro d'Italia in TV. Era una delle ultime mani, quando sentirono arrivare una macchina e videro il Suv che si fermava sulla provinciale, quasi in mezzo alla strada. Prima ancora che l’uomo scendesse, si vide un lampo dentro il Suv. Quando l'uomo scese si capì che erano stati gli occhiali a specchio, che avevano intercettato il sole che si specchiava contro i vetri del bar.

Salvatore, con un gesto improvviso, raccolse tra le proteste le carte dal tavolo e le strappò quasi via dalle mani dei giocatori. In malo modo li sbattè via, fuori dal bar, proprio mentre quello entrava. Ne aveva visti tanti passare nel suo bar, ma anche se solo attraverso gli occhiali a specchio, aveva capito quanto era feroce il tipo e per questo aveva mandato via in fretta e furia gli altri. Stava andando dietro al bancone, quando quell'uomo gli mise una mano, pesante, sulla spalla, fermandolo. “Dove scappi? Ho sete, ho fame e ho poco tempo.” disse girando lo sguardo intorno per vedere se erano soli. Voltandosi verso l'uomo, Salvatore vide subito la cicatrice: una piccola croce sulla guancia. Rimase sconvolto: era la stessa piccola croce che ricordava sulla guancia di suo padre, l'unico ricordo che gli era rimasto di lui. Gli scappò un sorriso.

“Chetti ridi vecchio?” “La tua cicatrice mi ricorda mio padre.” Gli occhi, coperti dagli occhiali a specchio non si vedevano, ma la mascella dello sconosciuto si contrasse. “Fa’ presto, stupido vecchio, e non dire cazzate!” Mangiò in fretta, uscendo ovviamente senza pagare, ovviamente buttando a terra piatti e bicchieri. All’arrivo dei carabinieri, che erano sulle tracce dell’uomo, Salvatore aveva già ripulito tutto ed era seduto placidamente sulla porta, con lo sguardo verso il tramonto. Aveva un sorriso lungo il viso, perché per quanto spaventoso quell'incontro, aveva ritrovato per un attimo il suo papà, che l’aveva salvato dopo settanta anni.

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