Il racconto

GIOCO DI MEMORIA

 “La Scopa è come la vita: per vincere bisogna memorizzare le carte in gioco ed agire di conseguenza; chi non lo fa è destinato ad affidarsi totalmente al caso, il quale, spesso, sa essere veramente bastardo”. Le parole risuonarono come ogni sabato nel bilocale della famiglia Esposito.

Vincenzo era un uomo umile e buono. Tuttavia, sapeva di essere molto abile nella Scopa e spesso lasciava che questa sua consapevolezza trasparisse con irritante seppur innocua spavalderia.

“La cosa più importante è la memoria!” Diceva. E ne aveva da vendere, il buon Vincenzo, di memoria.

Lui e Silvia erano soliti intrattenere interi pomeriggi in compagnia di una coppia di amici: Rosa e Carmelo.

Un tempo le cose erano diverse: Vincenzo amava leggere e lo faceva nei posti più disparati; per noi era l’occasione di vedere il mondo da punti di vista sempre diversi: la poltrona, la veranda, il giardino sotto casa. Ma a seguito di un brutto incidente le cose erano cambiate. Uno dei nostri naselli si ruppe. Vincenzo smise di servirsi di noi e ci lasciò a marcire su una credenza dall’ odore stantio, sopra la quale tuttora viviamo.

Un destino infausto per degli occhiali da lettura.

Per alcuni mesi, sovrappensiero, aveva provato ad indossarci, ferendosi puntualmente pochi millimetri sotto l’occhio sinistro. Confidava di portarci a riparare, prima o poi, ma di fatto col tempo finì per dimenticarci.

Restammo qui ad osservare.

E ricordare.

Quella sera la coppia Vincenzo-Silvia conduceva la partita per otto punti a tre. Quando Carmelo raccolse il settebello, Vincenzo sorrise con genuinità, come se avesse scelto di concedere il punto al vecchio amico, scoraggiato dai risultati delle mani precedenti.

Sentimmo una stretta al nostro freddo cuore di metallo. Da mesi le cose non andavano, eppure Vincenzo sembrava non cogliere alcun segnale.

La partita proseguiva tra ipocriti sorrisi.

Donna, asso, cavallo. Scopa.

Ad ogni fruscio di carta la nostra inquietudine aumentava. Vincenzo ci aveva condannati ad un futuro tedioso ma quella situazione ci tormentava più di quanto avrebbe fatto un’intera vita dimenticati su quel legno tarlato.

Abbracciammo un raggio di sole pomeridiano riflettendone la luce sul volto di Carmelo: per un istante, una cicatrice  brillò sotto l’occhio sinistro.

Vincenzo lanciò una rapida occhiata, attirato dal riflesso, poi tornò a studiare la sua mano.

Quattro, re, asso. Sul tavolo: sette, sei, quattro.

La memoria vacillò. Giocò il re, raccogliendo il sei e il quattro.

Notammo nel suo sguardo che un ricordo stava riaffiorando: un caffè con Carmelo alcuni giorni prima, quando aveva notato il taglio ancora fresco sul naso dell’amico.

“Un incidente sul lavoro –aveva spiegato lui– per poco non ho perso l’occhio”.

Lo stesso giorno, rientrando a casa, Vincenzo aveva notato delle gocce di sangue sul tavolo, eppure sua moglie non aveva ferite d’alcun tipo.

Cominciava a ricordare…

Guardò verso di noi; lo schizzo del sangue ormai annerito dell’amante di sua moglie macchiava ancora le nostre lenti.

Rimembrò il giorno in cui, anni prima, lui e Carmelo avevano comprato lo stesso paio di occhiali da lettura. A differenza di Vincenzo, però, l’amico non aveva mai smesso di leggere.

Neanche quando veniva a trovare Silvia.

Carmelo giocò un sette.

Scopa.

Rivolgendo uno sguardo rassegnato ed affranto verso di noi, Vincenzo sorrise, ripensando con ironia alle sue stesse parole.

La Scopa è come la vita: per vincere bisogna memorizzare le carte in gioco ed agire di conseguenza; chi non lo fa è destinato ad affidarsi totalmente al caso, il quale, spesso, sa essere veramente bastardo.

 

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