Il racconto

IL BARBONE

Il lavoro rende liberi. Il lavoro nobilita l’uomo.

Due motti creati appositamente per far lavorare a testa bassa le persone con la pretesa di renderle pure felici. Intanto il primo era posto all’ingresso dei lager nazisti e, da quel poco di storia che so, il lavoro che si svolgeva lì dentro rendeva gli ebrei più schiavi che liberi, più disumani che umani, più tristi che felici.

 Il secondo di cui non conosco la genesi, mi sembra ancora più assurdo.

Nobilitare un uomo attraverso il lavoro, significa infatti renderlo migliore, elevare la sua dignità. Esattamente come si fa col truciolare che lo si nobilita rivestendolo di fogli melamminici.

Se il truciolare elevi la sua dignità, non lo so, ma so che tra i fogli melamminici il truciolare è sempre lo stesso. Così come è sempre lo stesso l’uomo che lavora a testa bassa rispetto a quando non lavora, magari a testa alta. È solo più affaticato.

È per questo motivo che io non ho mai voluto dedicare troppo tempo al lavoro.

E dire che i miei genitori hanno cercato in ogni modo di trasmettermi i loro sacrosanti valori: la famiglia, l’onestà , la dignità. Dicevano che senza lavoro non avrei potuto avere una famiglia e che sarei diventato per forza di cose un disgraziato.

Li ho clamorosamente smentiti: ho una bella famiglia composta da me e due cani che mi mantengono, tutt’ora non lavoro e non per questo sono diventato un disgraziato. Vivo onestamente grazie al finto guaito che ho insegnato alla perfezione ai miei cani e all’elemosina dei passanti che passeggiano sotto al portico in cui ho stabilito la mia residenza.

Di me non avrebbe  compassione nessuno ma dei cani, grazie a Dio, sì.

Già,  io sono un barbone e sono anche un barbone felice.

E se sono diventato un barbone è proprio grazie a quelle remote esperienze lavorative, intraprese per far felici i miei genitori.

La prima fu in una cava di sabbia. Il mio lavoro consisteva nell’insacchettare a mano la sabbia e impilare i sacchi uno sull’altro con una tecnica a incastro in modo che la pila non venisse giù.

Un lavoro da schiavi del periodo postcolombiano. Il secondo giorno fortunatamente venni licenziato perché distrattamente avevo posizionato male un sacco e la pila crollò rovinosamente a terra. Ancora adesso ringrazio quel sacco di sabbia che frantumò un piede di un capetto, altrimenti, invece di cacciarmi a pedate, mi avrebbero costretto a rimettere tutto a posto e a continuare a fare lo schiavo.

Poi fu la volta della catena di montaggio. A ritmo incessante mi arrivava davanti al naso un motore e, nello spazio di due secondi, dovevo registrare con un cacciavite unimportante vite, su decine di viti presenti.

Un giorno, con la vista annebbiata dalle migliaia di motori che mi passavano davanti, sbagliai vite e regolai quella dell’operaio successivo. Ovviamente ci fu una propagazione a catena dell’errore e quando montarono il motore, successe l’impensabile: all’accensione si udì un rombo pauroso e i pistoni sfondarono il cofano. Fui licenziato per la seconda volta.

La terza, ed ultima esperienza, fu in una azienda che faceva coperchi per pentole. Io, attraverso una puntatrice, dovevo saldarne il manico. Il caporeparto mi aveva spiegato come fare, l’unica cosa a cui dovevo stare davvero attento era di non spingere quel pulsante rosso quando piazzavo la pentola nel  macchinario. Purtroppo, mentre lui stava posizionando l’ennesima pentola per assicurarsi che io avessi recepito bene, urtai il pulsante rosso. E la puntatrice fece il suo lavoro: saldò le dita del capo al coperchio. Un’ora dopo ero di nuovo disoccupato.

Fu così che, adottando due cani randagi ma volenterosi, iniziai la felice vita da barbone.      

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