MASSIMO BERTACCHI
A VENEZIA O ALTROVE

A VENEZIA O ALTROVE
Prezzo Fiera 12,80
Prezzo fiera 12,80 A VENEZIA O ALTROVE TI RITROVERO'

1534. Un affresco dello Stato da Mar veneziano, un incrocio di vite vissute sul filo dell’avventura in un romanzo che può sembrare frutto di fantasia ma che invece descrive fatti realmente accaduti e personaggi straordinari che appartengono alla storia di quegli anni. Una narrazione di ampio respiro che spazia dalla prigionia degli schiavi cristiani sulle galee turchesche a quella nelle prigioni algerine fino a quell’aspro confronto fra l’Oriente musulmano che sin da allora cercava di prevalere sull’Occidente cristiano. Nane, Matteo, Pietro e gli altri personaggi si muovono tra le mille difficoltà proprie di quel tempo, superandole sempre in modo credibile, talvolta animati da sincero spirito di amicizia, talaltra in preda a inganno e infamia. L’autore descrive La vita e i costumi veneziani con quella vivida naturalezza che abbiamo imparato ad apprezzare nel suo precedente romanzo (L’Oro di Candia, EDIBUS, 2013) e ci fa volare sopra l’incantata frenesia di Istanbul, il deserto nordafricano e le sue durezze, senza tralasciare le infinite solitudini marine, in una corsa contro il tempo che catturerà l’attenzione del lettore sino all’ultima pagina.

Primo capitolo

Tutto era accaduto dannatamente in fretta. La San Lorenzo, una caracca genovese diretta in Terrasanta carica di merci e pellegrini, era partita poco dopo l’alba da Bari. Quando le coste p disporre di una cifra per portare a termine il viaggio, i commerci e far fronte a evenienze ma anche per poi rientrare a casa. Gli mancava al suo fianco la presenzaugliesi sfumarono nella bruma mattutina e non furono più in vista Nane avvertì per la prima volta la solitudine del navigante e percepì l’immensità del mare in modo diverso. Nelle precedenti traversate la sua galea grossa da commercio era ben protetta in una muda, ossia un gruppo di navi difese
da una galea sottile da guerra. Far parte di un convoglio gli aveva sempre dato un senso di sicurezza forse ingiustificata rispetto ai tanti pericoli che avrebbe potuto incontrare  lungo il viaggio. Ora intorno a quel guscio di noce non c’era nient’altro che aria e acqua e ovunque volgesse lo sguardo una sottile linea all’orizzonte divideva l’azzurro del cielo dal blu del mare, persino i gabbiani quella mattina non si erano allontanati dai loro comodi rifugi a terra. La caracca era più larga, lunga e goffa delle agili galee su cui Nane aveva navigato, tuttavia gli appariva minuscola nella solitudine di quell’immensità. Nane stava inseguendo Thera, la donna che amava e che per un soffio non aveva raggiunta lungo la strada tra Venezia e Bari. Partito assieme a Pietro e a Zuan Grando, due amici che si recavano nelle Puglie per avviare un commercio d’olio d’oliva, giunse a un soffio dal raggiungere la comitiva dei pellegrini cui la ragazza si era unita. Lei intendeva tornare a Candia, dove era nata e dove era la sua casa. Solo un capriccio del destino impedì a Nane di raggiungerla: un’indicazione sbagliata a un bivio su un passo appenninico fece loro
scegliere la strada più lunga, così giunsero a Bari due giorni 14 dopo che la cocca di Thera era salpata. Lungo il percorso verso San Giovanni d’Acri, la nave su cui si era imbarcata avrebbe fatto scalo a Candia, la sua isola natale posta al centro delle rotte commerciali verso oriente, da trecento anni governata dai veneziani. Thera contava, rientrata a casa, di far valere i suoi diritti col fratello Arbel. Avrebbe reclamato la sua parte di eredità del padre Andreas, morto durante il viaggio che avevano compiuto insieme verso Venezia. In fondo si sarebbe accontentata di riavere la casa di famiglia in città. Sapeva bene che le leggi garantivano le proprietà esclusivamente al primogenito maschio, ma sentiva che avrebbe dovuto occuparsi della sorella maggiore, una ragazza debole di mente ospite in un monastero. Suo fratello, superficiale e arrogante, non avrebbe dedicato alla sorella maggiore alcuna attenzione dopo la scomparsa del padre, per questo motivo aveva lasciato Nane e la prospettiva di vivere con lui a Venezia nonostante l’amore che provava. In cuor suo continuava a sperare di riabbracciarlo, sognava di vederselo comparire innanzi all’improvviso e di volare grata tra le sue braccia e sempre, a quel pensiero, le si inumidivano gli occhi. Giunto a Bari Nane dovette aspettare tre giorni che una caracca genovese completasse le operazioni di carico in porto. Poi, finalmente, venne il momento della partenza. La rotta era verso Alessandria d’Egitto. La prima giornata di navigazione e la prima notte passarono senza eventi degni di nota. Nane aveva pagato il suo passaggio utilizzando una parte del denaro guadagnato con un commercio di vino, la Malvasia di Candia prodotta da Andreas Papandrau, il padre di Thera. Quel che restava del suo tesoro lo custodiva in una sottile borsa che
portava sempre con sé, ben cucita in un risvolto delle sue vesti. A bordo della nave i furti erano all’ordine del giorno, spesso erano gli stessi marinai ad ‘alleggerire’ i passeggeri che dovevano sempre rassicurante di Matteo, l’amico galeotto sforzato conosciuto al banco di voga durante il suo primo imbarco. Matteo aveva la forza e l’astuzia che gli venivano da una vita di strada difficile e solitaria dato che la madre lo aveva abbandonato ancora in fasce all’Ospizio della Pietà. Solo il pensiero di rivedere la sua Thera gli dava il coraggio di continuare quel viaggio pericoloso da solo, senza nessuno accanto che gli coprisse le spalle nei momenti più difficili e pericolosi. Poco dopo l’alba del secondo giorno furono avvistate in distanza due navi che, a favore di vento, deviarono dalla loro rotta iniziale dirigendosi a vele spiegate verso la caracca di Nane. Un vento gagliardo le sospingeva da poppa mentre la nave di Nane era costretta a far ‘bordi’ per quel vento a lei ostile. Il comito, d’accordo col pilota, concordò che quel braccio di mare era da considerare una zona pericolosa: troppo distante da porti amici in cui riparare in caso di attacco. Decise di allungare il ‘bordo’ che stavano compiendo puntando a nord-est e sperando così di veder scadere a dritta di prua le due navi potenzialmente ostili. A quel punto le due galee, ben visibili ma ancora distanti, si separarono allargandosi tra loro e tagliando così la strada a qualunque direzione la nave di Nane intendesse prendere. Il comito della caracca decise allora, per prudenza, di invertire la rotta e di dispiegare tutta la velatura per tentare di allontanarsi dalla minaccia. Diede quindi l’ordine che i rematori vogassero alla massima cadenza possibile ma non ancora a voga arrancata (che si può mantenere per poco tempo) ma tutti insieme al massimo sforzo, ben sapendo che la velocità che avrebbe potuto raggiungere era talmente inferiore rispetto a quella delle due fuste che avrebbe solo ritardato, ma non certo evitato, di essere raggiunto. Ora diventava solo una questione di tempo. A quella manovra di fuga le due 16 galee in distanza riallinearono la rotta navigando parallele a distanza di mezzo miglio circa una dall’altra, puntando decisamente la scia della caracca. Le loro intenzioni erano più che evidenti: il comito diede ordine che i passeggeri fossero fatti entrare nello stanzone che fungeva da dormitorio comune sotto coperta, così da non intralciare le manovre. Quindi ordinò che fossero distribuite le armi ai marinai e che si disponessero i più esperti fucilieri a poppa, pronti a colpire all’ordine. Comandò poi che l’aguzzino si tenesse pronto al suo ordine a sferzare le schiene dei vogatori imponendo loro una vogata “arrancata”, cioè al massimo delle loro possibilità, così da metter acqua tra loro e gli aggressori, sperando nel fortunato
incrocio con un’altra nave che li soccorresse. Ma la fortuna quel giorno non era dalla parte della San Lorenzo, il vento sostenuto che spingeva le due più veloci galee faceva loro guadagnar acqua a vista d’occhio e all’orizzonte non c’era traccia di navi amiche. Dopo meno di un’ora fu possibile alle vedette distinguere, dalla forma delle imbarcazioni e dalle bandiere verdi con la mezzaluna, che si trattava di due navi ottomane. La caracca era armata con alcuni cannoni sul ponte inferiore, utilizzabili solo quando le navi si fronteggiavano lungo le murate e da due cannoncini girevoli, posti sul castello di poppa, chiamati colubrine. Subito fu ordinato di
recare ai pezzi le munizioni e la polvere da sparo e di tenersi pronti all’ordine di dar fuoco alle polveri. I bombardieri dovevano mirare agli alberi maestri delle galee cercando di abbatterli con palle catenate così da rallentarne la corsa. Un premio fu promesso dal comito a chi fosse riuscito a disalberare le navi pirata, ben consapevole che si trattava di un tiro difficile e che le probabilità di un colpo fortunato erano veramente modeste. L’unico vantaggio della caracca sulle galee era
la maggior altezza delle murate che rendeva l’abbordaggio più difficile e la difesa della nave più efficace da una posizione sopraelevata, ma troppo pochi erano gli uomini armati a difesa della nave e poco avvezzi al combattimento. Nane uscì allora dal boccaporto e chiese di poter partecipare alla difesa della nave. 

Specifiche

  • Pagine: 304
  • Anno Pubblicazione: 2018
  • Formato: 14,5 x 21
  • Isbn: 978885460249
  • Prezzo copertina: 16

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