MARCO GIANNINI
MARIO E IL SUO DOPPIO

MARIO E IL SUO DOPPIO
Prezzo Fiera 12,80
Prezzo fiera 12,80

Mario è un architetto che dirige uno studio professionale insieme alla sorella gemella Giulia. In particolare, nell’anno solare 2014 stanno seguendo l’importante progetto di costruzione della biblioteca della loro città.  Mario tiene un diario dalla struttura originale, dove il racconto degli eventi quotidiani è interpolato da una serie di altri racconti, di vario argomento e stile, in prima e terza persona, che traggono spunto dall’apparizione inspiegabile di alcuni oggetti legati alla varietà della sua esperienza, caratterizzati da un insistito  riferimento al numero due, alla duplicità , alle due facce della realtà, a ciò che sembra, ma non è. Avviene un po’ come nei meccanismi onirici, dove una situazione ne genera spontaneamente un’altra, quasi sempre libera o apparentemente irrelata rispetto alla sua causa scatenante. Un testo che si distingue per la sottigliezza psicologica e per il controllo e la compostezza efficace della scrittura e dello stile, è pervaso da un continuo riferimento a una figura femminile di rispecchiamento e di contrasto, e si chiude con una soluzione sorprendente e con l’intervento di altre mani sul diario.

Primo capitolo

2 gennaio 2014, giovedì
Le avevo detto di no, che la cosa non mi interessava, anzi, non ne volevo nemmeno parlare; lei mi ha ascoltato in silenzio e poi ha ripreso, come se niente fosse, a spiegarmi che aveva ragione lei. Giulia fa sempre così, salda e ferma come le sue rocce da scalare; se si mette in testa una cosa non molla finché, prima o poi, riesce a farmela fare, e poi va a finire che le do ragione e le dico pure grazie. Anche stavolta, da Natale a oggi, ho fatto resistenza, le ho detto che non avevo tempo e che in questo periodo, con il progetto esecutivo da avviare, non c’era un minuto da perdere. Lei, zitta, ascoltava, ma poi riprendeva con tutti gli argomenti possibili: è arrivata persino a dire che con l’anno nuovo si fanno cose nuove, si imboccano sentieri diversi, si cambia. Così mi ha convinto, almeno ad aprirla. È sicuramente un bell’oggetto e da Giulia non ci si poteva aspettare altro. Le pelle della copertina è profumata, morbida e di un colore bruno chiaro, direi ciliegio. Le pagine sono di una carta sottile color paglierino e le righe sono appena accennate. Il taglio delle pagine, come d’uso, è in oro. Insomma un’agenda molto bella, anche perché non riporta le date e le ore degli appuntamenti, ma ha solo fogli bianchi, da riempire come si vuole un giorno sì e magari tre no. Un giorno si può scrivere tanto, un altro poco. Io le ho subito detto che dopo tutto non era che un banale diario, ma Giulia ha risposto che mi sbagliavo e allora le ho chiesto: “E allora che cos’è?”, ma lei non è andata oltre. È chiaro che il tempo mi manca e che soprattutto non ho nessuna voglia di farlo ma, lo so già che, siccome me lo ha detto Giulia, finirò con usarla, scrivendo, ma solo quando ne avrò voglia.
Anzi per oggi basta, ho scritto già fin troppo.

6 gennaio, lunedì
Stamattina ho aperto la porta del corridoio e sono entrato in studio. Ovviamente non c’era nessuno e i tavoli sgombri e ordinati, i computer spenti, i telefoni silenziosi, mi hanno fatto il solito effetto di pausa dinamica. Mi piace, nei giorni i festivi, girare nei locali vuoti, sfiorare con le dita i tavoli, e le spalliere delle sedie, sfilare dagli archivi qualche disegno e guardarlo; spesso non sono miei progetti, sono cose di Giulia e dei suo collaboratori. I miei progetti stanno tutti nella mia stanza e lì non ci mette piede nessuno, se non Walter, ma solo quando lo convoco io. Io preferirei chiamarlo Rossi, dottor Rossi, come si fa con i giovani architetti che iniziano a collaborare con lo studio, perché preferisco tenere le distanze, ma lui insiste nel farsi chiamare Walter. Del resto non l’ho nemmeno scelto io, è stata un’idea di Giulia, anche questa, e comunque ognuno stia al suo posto: io sono il suo capo, partner dello studio e lui l’ultimo dei collaboratori, appena arrivato; ci incontreremo solo quando sarà necessario per il progetto. Entro un attimo nella stanza di Giulia. La scrivania moderna troneggia, ma la si vede appena, coperta com’è da carte e rotoli, tenuti aperti da fermacarte improvvisati: Il bicchierone di plastica ricolmo di pennarelli di mille colori, il mouse, la lampada da tavolo e anche il telecomando del condizionatore. Sulle sedie ci sono altre carte impilate e altre ancora pendono dalla libreria sulla parete di fondo; sui lati lunghi della stanza, in cornici a giorno e plexiglass, premi, diplomi e attestati vari. Com’è diversa la tua stanza dalla mia, Giulia. Io tengo tutto in ordine nei cassetti della vecchia scrivania di mogano del papà, con la superficie lucida e perfettamente sgombra, se non consideriamo il portapenne d’argento con la stilografica, le matite tutte ben appuntite e il telefono. Il tecnigrafo lo tengo accostato alla parete, sulla libreria solo libri e alle pareti solo vecchie stampe della nostra città. Del resto perché lasciare in giro le tracce del proprio disordinato lavoro creativo? Io tengo tutto ben ordinato nella mia mente e in pochi appunti, sempre a mano, che tengo in un cassetto. E quest’ultimo progetto non è certo da poco, potrebbe essere veramente quello di una vita e questo è il momento cruciale, quando si passa alla fase esecutiva, quando dall’idea si va alla costruzione della “cosa”. L’agenda è lì e sembra sia lei a osservare me e non il contrario, mentre continuo a scrivere.

10 gennaio, venerdì - L.E.M.
Quando sono entrato in studio, questa mattina, l’ho trovato sulla scrivania. Chiudo sempre a chiave la sera, sono più che sicuro di non essermene dimenticato nemmeno ieri. Non è che non mi fidi dei miei collaboratori, ci mancherebbe, ma è solo una questione di riservatezza, ci tengo a che nessuno metta mano alle mie cose, che le sposti da dove le ho lasciate con il rischio poi di non trovarle più, tutto qui. E così alla sera chiudo la porta prima di andare a casa. Ieri sera non c’era e ora sta lì in mezzo alla scrivania. Chi può averlo messo ma, soprattutto, chi ha potuto recuperarlo dal fondo di un qualche vecchio mobile, in solaio o in cantina: chissà dove. È ancora intatto, solo la plastica trasparente della scatola, un cilindro piuttosto basso, si è opacizzata con gli anni, ma non c’è polvere sopra, chi l’ha messa sul mio tavolo l’ha anche spolverata. Infilando le unghie sotto il bordo del coperchio, riesco a sollevarlo. Dentro è tutto rimasto perfettamente pulito, anche i colori sono ben conservati, soprattutto il bianco, che è la tinta prevalente; la decalcomania della bandiera invece si è scolorita, il rosso delle strisce tende ora al rosa, il blu è virato al violetto. È una specie di plastico in miniatura, i due omini camminano sul terreno grigio, la scaletta è bel collocata su un fianco e il L.E.M., bianco, occupa quasi tutto lo spazio all’interno della scatola. Lunar Excursion Module ovvero Modulo di allunaggio del progetto Apollo. Anzi proprio quello che, per primo, era sceso sulla luna: l’Apollo 11. Non era stato difficile l’assemblaggio del modellino e mi ci ero dedicato con tanta attenzione perché sapevo che il papà sarebbe stato contento. L’allunaggio non me lo ricordo, avevo 5 anni, ma il papà nel parlava sempre: era una delle sue passioni. Lui aveva seguito tutto il collegamento per ore davanti al televisore, la realizzazione dei suo sogni da quando aveva iniziato a leggere Verne: l’uomo sulla luna. Infilo la mano nella scatola per estrarlo, ma poi mi blocco con le dita aperte intorno al modellino, meglio lasciar perdere, continuare a guardarlo attraverso la plastica opaca: non è detto che dopo tanti anni, ne conto almeno quaranta, la colla tenga ancora e che il tutto non si disintegri tra le mie dita. Due sono gli uomini sul terreno grigio della luna, due, un numero non casuale per me; ma l’equipaggio dell’Apollo 11 era composta da tre astronauti Armstrong, Aldrin...Chiamatemi Michael Collins, sì il mio nome è Michael Collins. Loro due sono là sotto, mentre io qua, da solo, giro in tondo come su una giostra, aspettando che finiscano il lavoro e tornino da me. La terra è sorta, anzi praticamente non è mai tramontata: l’enorme palla bluastra è rimasta sempre in vista, mentre qui sotto, anche se è difficile dire cosa sia sopra e sotto, c’è la luna che sembra solo una fotocopia della terra, slavata e in bianco e nero. Neil sarà sicuramente ricordato come il primo uomo a camminare sulla luna, forse qualcuno saprà chi è stato Buzz Aldrin, anche se di solito del numero due, del secondo che ha fatto qualcosa di memorabile, non rimane memoria, e del resto a me di Buzz non è mai importato nulla, secondo era e secondo sarà sempre, a me importa di Neil perché ci dovevo essere io lì e invece nessuno si ricorderà di me: Michael Collins il terzo membro dell’equipaggio dell’Apollo 11, il comandante del modulo di comando, quello cioè che resta in orbita lunare e non scende sulla superficie del satellite. Mentre sono qui che volo in tondo, da solo, provo un po’ a ripassare, nel silenzio della notte lunare, un piccolo riassunto della mia vita. Ho sempre cercato di essere efficiente, preciso, completo, senza sbavature e poi mi è sempre piaciuto il bello. Sarà forse perché sono nato a Roma, che è la città più bella del mondo; penso ancora alla prima volta che sono salito su un aereo, e quando ho deciso che “da grande” avrei fatto il pilota e poi mi ricordo ancora la lunga trafila per entrare nel gruppo degli astronauti della N.A.S.A. All’inizio pensavo che non fosse importante, che non fosse indispensabile essere il numero uno; ma, come diceva sempre mio padre, era necessario essere all’altezza della situazione sempre e comunque: nessuna debolezza, nessuna imprecisione, nessun fallimento, quello che mi ripromettevo di fare dovevo raggiungerlo. E così ho lavorato, ho lavorato sodo e ho messo insieme tante di quelle ore di volo finché quelli della N.A.S.A. sono venuti a cercarmi, e poi ho camminato, da solo, nello spazio assoluto dell’universo, senza niente sotto i piedi, ma quelli erano i tempi della missione Gemini. Poi il comando dell’Apollo 8 era già mio, se non si fosse messa di traverso la mia schiena a darmi dei problemi; rischiai addirittura di essere escluso dall’intero progetto, ma loro non sapevano chi era Michael Collins, non sarebbe stato certo un’ernia del disco a fermarmi. Andai di corsa sotto i ferri, cento giorni di fisioterapia e poi ero più in forma di prima e pronto a ripartire, perché se io ho un programma lo devo portare a termine e il mio programma era di arrivare sulla luna, e infatti ci sono... quasi riuscito. Continuo a rotolare solitario in orbita e là sotto mi pare quasi di vedere Neil che tira fuori la bandiera e si fa fotografare, ma prima ancora Neil, sì, lui e non io, aveva pronunciato quella bella frase, così, come niente fosse, da quel bravo attore che è, da quell’abile e consumato navigatore degli spazi infiniti della burocrazia di Washington. Ci avevano messo sei mesi per studiarla, per pensarla, per scriverla, tutti quei cervelloni e poi sei settimane per fargliela imparare e per fargliela dire come se fosse la cosa più naturale di questo mondo: “È un piccolo passo per un uomo...“, che idiozia. Non è a Buzz che penso ma a Neil, io e lui, e lui non aveva fatto nulla più di me, ma aveva fatto i passi giusti, e li aveva fatti nella direzione corretta, nelle stanze del potere, quelle più segrete e nei momenti più opportuni, non ha nessuna importanza se ai test fisici io ero più forte di lui, non ha contato nulla essere sempre presente durante le riunioni tecniche e per le varie incombenze; invece è stato decisivo esserci agli incontri riservati, agli scambi di opinioni e di pareri durante il week-end a pesca sui fiumi con i capi, e conoscere tutto l’armamentario di “signorsì” che il vecchio Armstrong sapeva bene, molto meglio di me. E allora lui sì e io no, io resto qui e ormai è tardi, e i giochi sono fatti, e sono anche finiti ed è dura, adesso, essere il primo uomo che non ha messo piede sulla luna. La spia verde si accende, abbasso la levetta. -Sì, Houston, sono in linea, sono sempre in linea, io... ah, ok, stanno rientrando: va bene allora apro il cancello del giardino e comincio a preparare il barbecue... e sì, lo so, Houston, sono sempre stato un tipo spiritoso io. Passo e chiudo. Chiudo anch’io la scatola e la appoggio sullo scaffale più basso della libreria, chissà come è arrivata sul mio tavolo e dove è stata in tutti questi anni fino ad oggi. Più che l’allunaggio mi ricorda un gioco, che facevo qualche volta con Giulia, ma più spesso da solo. Il gioco del “ io se fossi”... quante volte mi sono immaginato di essere un altro diverso da me e quante volte ho provato a pensare cosa avrei fatto io, come mi sarei comportato, cosa avrei pensato, se io non fossi stato quello che ero e sono. 

Specifiche

  • Pagine: 208
  • Anno Pubblicazione: 2018
  • Formato: 14,5 x 21
  • Isbn: 9788885460201
  • Prezzo copertina: 16,00

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