Davide Adamo
Un padre invisibile

Un padre invisibile
Prezzo Fiera 15,00
Prezzo fiera 15,00

Un padre e un figlio. I loro rapporti non sono mai stati facili, divergenze e rancori si susseguono sino a diventare violenti. Si specchiano l'un l'altro con forte astio, convergendo entrambi nella figura femminile che fa da collante tra loro. Una madre, una moglie, che fatica a tenere in piedi un nucleo familiare frantumato. Una storia che è la storia di tanti giovani, prede di incomunicabilità e insicurezze. Il protagonista, però, squarcia il velo di vittimismo e con forza, determinazione e coraggio prende in mano la sua Vita, proiettandola verso vette insperate. Un romanzo che è denuncia, ma anche spinta verso la realizzazione dei propri desideri e dei propri sogni. "Non mi sono arreso, non arrendetevi mai...", questo il messaggio dello scrittore.

 

Primo capitolo

Anche se ho meno di trent’anni agli occhi degli altri appaio come uomo maturo per come ragiono, parlo e mi vesto; non posso dar loro torto. La vita che ho vissuto mi ha seriamente provato. Sono stato costretto a crescere in fretta, senza nessun punto di riferimento nella mia famiglia. Un padre completamente inesistente per buona parte della mia giovinezza e adolescenza; per il resto della mia vita come se non ci fosse stato; inutile e negativo in ogni suo comportamento. Mio padre soffre di depressione; molti pensano che sia un malessere passeggero, legato ad uno specifico periodo o momento negativo. Purtroppo non è così; a volte è difficile da individuare perché spesso quello che traspare non rappresenta la realtà. Immaginate una persona sempre negativa, maldisposta con chiunque, sempre in urto con il mondo, una persona dalla quale chiunque cercherebbe di stare lontano; e per un attimo, immaginate di dover vivere con una persona così, perché presente nella vostra vita dalla nascita e fino a quando non vai via. Se questa persona poi è tuo padre, colui che più di tutti dovrebbe farti capire che la vita è un percorso doloroso ma dovrebbe altresì trasmetterti positività, affetto e amore, ti rendi conto invece che con la sua negatività fa diventare ancora più difficile capire cosa è giusto e cosa è sbagliato e perché riesce a farti sentire in colpa verso il mondo. Sono sicuro che molti di voi, sanno di cosa io stia parlando. Magari l’hanno vissuto in prima persona e probabilmente stanno cercando ancora di mettere insieme i cocci della propria vita. Le esperienze negative avute nella nostra infanzia, possono essere le cause scatenanti di questa patologia che, come un penoso fardello, ti accompagna per tutto il resto della vita. Ed è verissimo; anche l’infanzia di mio padre è stata fortemente condizionata dalla completa mancanza di affetto da parte dei genitori. Ciò significa che è una catena, un circolo vizioso che va sempre a ricadere maledettamente sulla parte fragile della famiglia, la parte più indifesa e bisognosa di cure e attenzioni: i bambini, coloro che di colpa non ne hanno nessuna. Non ho alzato la mano e chiesto di venire al mondo, hanno deciso altri per me, ho solo avuto il merito o la sfortuna di essere stato lo spermatozoo più veloce ma non è detto che sia stato anche il più furbo. Se mi avessero avvertito in tempo del fatto che la mia infanzia sarebbe stata senza affetti, probabilmente non avrei fatto quella corsa inutile per arrivare primo. In un mondo giusto, nel mondo che ho sempre sognato, sarebbe stato corretto che coloro che hanno deciso di avere figli ne avessero preso cura con amore e affetto, e se non ne fossero stati in grado, sarebbe stato meglio se si fossero comprati qualche televisore in più senza infelicitare la vita degli altri. Quando nacqui ero bruttino, con una peluria presente un po’ ovunque sul corpo. Mia nonna mi racconta spesso un episodio riguardante i miei primi attimi di vita. Si ritrovarono lei e mia madre a fissarmi dall’alto della mia culla; ero ancora in ospedale, sotto osservazione. Mi osservarono per qualche minuto in religioso silenzio. Nessuna delle due apriva la bocca, come timorose di dare voce ai loro pensieri. Erano sbigottite davanti a quell’esserino così villoso e dalle sembianze poco aggraziate. Dopo ancora qualche attimo mia madre si decise a dire qualcosa:” Mamma, è un po’ bruttino vero?”. Mia nonna tentennò per qualche secondo, poi prese coraggio e rispose:” Nadia non ti preoccupare, po s’aggiust chianu chian” (“poi si aggiusta piano piano”). Ero appena uscito dalla pancia di mia madre e già pretendevano che fossi un fotomodello. Neanche avevo aperto gli occhi che già avevo subito il primo giudizio sgradevole e inopportuno. Per loro fortuna e soprattutto per la mia cambiai per davvero. Dopo qualche mese ero diventato un bel bambolotto. Moro, occhi marroni e un fisico ben strutturato come quello di papà. Riguardo le foto di famiglia, vedo le immagini di quando ero piccolo, l’unico periodo della mia vita durante il quale sorridevo sempre. La mia voglia di vivere e la mia innocenza traspaiono senza lasciare dubbio alcuno. Mia madre decise di non tagliarmi i capelli, cosicché nel giro di poco tempo avevo una bella capigliatura tipo “caschetto di banane”; un taglio che rendeva onore ai miei capelli che mamma accarezzava per ore ed ore, rilassandosi e allentando le tensioni. Le tensioni… la mia infanzia ne fu piena; il periodo più delicato per un bambino per la formazione del carattere e per l’apprendimento di una seria educazione ai sentimenti, fu per me pervaso da accadimenti che hanno avuto un peso rilevante. Spesso i media, così presenti nel quotidiano, tendono a fornire una visione idilliaca dell’infanzia, proponendo immagini di famiglie che svolgono unite e felici le azioni quotidiane come uscire sorridenti dal supermercato con il carrello della spesa pieno oppure nelle loro case intorno ad un tavolo pronti a consumare il loro pasto in una stonata allegria. Purtroppo la realtà è ben diversa, le notizie di cronaca disilludono le immagini patinate e ci danno un quadro crudo e realistico di ciò che nella realtà accade. Come osservavo prima, è nell‘infanzia che i bambini imparano ad amare e ad essere amati; è in quella fase che apprendono il rispetto verso il prossimo, sempre se i genitori hanno saputo insegnarlo. Impareranno a dare il giusto valore ad ogni cosa e a stare bene con se stessi. Un bambino che non può crescere in un ambiente sano e non viene educato con rispetto, non è messo nelle condizioni di poter essere ciò che vuole né di far emergere la sua umanità; egli seguirà il proprio istinto, a dispetto dell’altrui benessere. Sono figlio di genitori giovani, Riccardo e Nadia due opposti che si attraggono; completamente agli antipodi caratterialmente e fisicamente. Mio padre di costituzione robusta, irsuto, un metro e settantotto di rabbia e frustrazione; mia madre invece, una donna esile e mingherlina, un metro e cinquanta di fede, ingenuità e ansie. Non hanno avuto molto tempo per conoscersi, anzi, non si sono conosciuti per niente. La prima gravidanza arrivò in un battibaleno, quasi presi alla sprovvista. Potrei dire che è sbagliato e affrettato avere un figlio senza essersi ben conosciuti e aver prima consolidato il rapporto ma mentirei perché, a distanza di trent’anni, ho fatto la stessa identica cosa con la mia attuale compagna. Ma a questo ci arriveremo più avanti. Francamente non ho mai capito quale assurda alchimia li abbia fatti avvicinare, due persone così diverse che decidono di passare una vita insieme; stare a contatto tutti i giorni, dormire nello stesso letto, mangiare alla stessa tavola, con una persona completamente diversa da te, lontana dal tuo modo di essere, lontana dal tuo modo di pensare, lontana dal tuo modo di vivere. Dovrebbe essere una scelta fatta con ponderazione, non avventata e precipitosa; è un rischio e non sempre va bene. Mia madre mi ripeteva sempre: ”Tranquillo, l’amore vince su tutto, vedrai che ce la faremo”. Ero piccolo, le credevo, le davo ascolto, mi convincevo che fosse così; ho dovuto scoprire da solo dopo diverso tempo che era un’enorme bugia, detta in buona fede intendiamoci, ma assolutamente, illusoria e lontana dalla realtà. Ora poniamoci alcune domande per comprendere, innanzitutto, su cosa dovrebbe vincere l’amore. Dovrebbe vincere sui caratteri di merda che abbiamo? Sulle notti passati insonni? Sulle notti nello stesso letto, vicini ma schifosamente lontani? Dovrebbe vincere sulle parole che fanno male, sugli insulti detti sotto l’impulso della rabbia, che non si pensano veramente ma che tanto pesano; sulle litigate in mezzo alla strada; sulle settimane intere senza fare sesso perché si è stanchi, sui silenzi al ristorante quando hai davvero poco da dirti e non vedi l’ora che la bottiglia di rosso faccia effetto. Sui fraintendimenti. Su quella naturale propensione all’istigazione e al nervosismo dopo una giornata di lavoro, come se la giornata di lavoro non fosse già abbastanza. E dove mettiamo la complicità, l’intesa, il rispetto, l’intelligenza, la sensibilità, la voglia di crescere, la diplomazia, l’attrazione, la carica sessuale, la sincronia, il proprio passato, il proprio futuro, le abitudini, l’andare nella stessa direzione. Veramente crediamo che l’amore sia così forte? Siamo veramente convinti che sia tanto forte da non farci percepire cosa ci sta succedendo, cosa stiamo diventando; è davvero così impetuoso da farci cambiare il nostro modo di pensare, di vivere, di rapportarci l’uno con l’altro, da farci andare contro i nostri più radicati valori, andare contro quello che siamo. Per me non funziona così, non è quello che vorrei, né per me, né per la mia consorte; una storia ha bisogno di tante cose insieme, che funzionino insieme per essere davvero una bella storia. Un rapporto ha bisogno di sorrisi, di sguardi che ti lasciano senza fiato, di una pizza e di una birra davanti a un film come se si fosse amici da sempre, di una sera a teatro con dei vestiti eleganti noleggiati, di una sera in discoteca che finisce vomitandosi addosso. Di un pranzo in un ristorante stellato e di un kebab sotto la pioggia il giorno dopo. Di una gita in montagna a godersi gli alberi, la luce, il sole o di una giornata passata sul divano con i ritmi lenti di una domenica di pioggia. Una storia ha bisogno di silenzio quando non si ha voglia di parlare, quindi di complicità e lungimiranza; di leggerezza e di profondità, di verità fin da subito. Ha bisogno di conoscenza, di coraggio, di un’ora di carezze sulla testa dopo un’ora di sesso bestiale almeno in sei posizioni diverse, facendosi sentire almeno due piani più sopra. Una storia ha bisogno di addormentarsi appiccicati e svegliarsi nella stessa posizione. Ma ha anche bisogno di lontananza quando non ce n’è; e questo va saputo comprendere perché c’è necessità di capire le esigenze l’uno dell’altro. Di un week end senza vedersi e sentirsi, senza che caschi il mondo; di due mani che si cercano sotto un tavolo, sfiorandosi con le dita, ma ha anche bisogno di una pacca sul culo mentre sali le scale, di ironia, di cultura e di ignoranza insieme. Una storia ha bisogno di persone che sappiano trasformarsi e reinventarsi, di vivere tante cose nuove e di cose fatte per la prima volta e di cose fatte tante volte che racchiudano passioni in comune. Una storia ha bisogno di due persone che vadano nella stessa direzione. Ha bisogno di tempi e volontà che si incontrino al momento giusto, delle diversità e di trasformare le debolezze in una forza; esaltare i punti deboli dell’altro, di amor proprio, di voglia di parlare, parlare e parlare anche se è l’ultima cosa che vorremmo fare. In una storia si deve creare qualcosa di fantastico, infatti è di magia che si parla. “L’amore non vince su tutto”; io di certo non ho capito ancora cosa sia l’amore, ma sul tutto ho le idee chiare e so che senza “tutto” non c’è amore che tenga. ”Tuo padre non era così quando l’ho conosciuto, era diverso, sapeva donare amore e affetto, sapeva essere dolce e gentile, non avrei mai pensato che sarebbe diventato questo altrimenti non lo sposavo”. Mia madre lo ripeteva costantemente, forse per proteggere lui o per scusare sé stessa, ripetendo continuamente, “cambierà, cambierà..”; ma la vita scorreva in fasi altalenanti di disperati allontanamenti di mio padre da casa e da noi ed altrettanti riavvicinamenti che ci riportavano ad un’apparante normalità. Mamma credeva fortemente nella famiglia e pensava che se fossimo cresciuti senza un padre sarebbe stata una disfatta per le nostre vite perché la figura paterna per lei era sacra; sperava che cambiasse, mentre mio padre è inesorabilmente peggiorato e col passare degli anni la sua frustrante insoddisfazione è cresciuta a dismisura. Nei primissimi anni della mia vita invece, tutto era un po’ diverso; era addirittura tenero e affettuoso tanto da comportarsi come un amorevole padre; non si allontanava da casa, non stava buttato sul divano per buona parte della sua giornata ma, anzi passava del tempo con me e di tanto in tanto mi portava in giro, su qualche giostrina e sembrava che tutto procedesse abbastanza bene; erano i primissimi anni della mia vita, mia madre me lo ha raccontato tante volte. Poi, la situazione cambiò drasticamente; le liti erano sempre più frequenti, la calma e l’apparente pacatezza di mio padre stava scomparendo ed iniziava a farsi largo il suo lato più negativo alimentato dalla sua profonda insoddisfazione. Le discussioni erano incessanti e l’atmosfera in casa diveniva sempre più pesante ed invivibile. Una sera, dopo essermi messo a letto, venni improvvisamente ridestato da una forte discussione; ero molto piccolo ma ricordo precisamente alcuni momenti forti di quella serata. Rammento che sentii mia madre che lo minacciava con voce alterata e mio padre che rispondeva: ”Nadia, ij t facc mal”. Ricordo che scoppiai a piangere e mi diressi verso la cucina: Li vidi che si stavano azzuffando; una scena che allora mi fece male ma che oggi so essere stata oltremodo patetica. Appena si resero conto della mia presenza si lasciarono andare, scrollandosi le mani di dosso. A quel punto mia madre si avvicinò, mi prese in braccio e mi riportò a letto. Provò a calmarmi, ma la mia agitazione e il mio turbamento non mi permisero un veloce ritorno alla calma. In realtà, era già qualche anno che vivevo accompagnato dal suono incessante delle discussioni continue, ma quell’accadimento specifico pur nella sua violenza è servito ad insegnarmi come non ci si comporta davanti a un figlio. Intendiamoci, la famiglia perfetta non credo esista e non potrebbe essere; pensate ad una intera giornata per una intera vita vissuta solo con pace e tranquillità; è impossibile perché, lo si sa, perfino le coppie più affiatate discutono, principalmente perché l’uomo è un essere pensante e non tutti la vedono allo stesso modo ed alle volte lo scambio verbale diventa un po’ acceso e si può facilmente trasformare in una lite se quel giorno si è nervosi. È quel che accade anche nella mia attuale famiglia, con mia moglie e mio figlio; ma ciò su cui abbiamo lavorato per alleggerire questi momenti critici è la gestione della rabbia nei momenti incandescenti perché ci siamo resi conto che non è affatto scontata neppure per noi adulti e che talvolta, per motivi anche futili ci ‘accendiamo’ e non riusciamo a mettere un freno alle emozioni che ci travolgono. E non è molto diverso dalle esplosioni di disappunto di un bimbo in età prescolare che il genitore si sforza di seguire ed aiutare; forse l’adulto, che si sente impotente con il suo piccolo, dovrebbe contenere i suoi attacchi di stizza e non degenerare. Di tanto ho parlato con una psicologa qualche tempo fa, ed ella mi ha confermato che è del tutto ‘legittimo’ che ogni tanto un genitore non riesca a stare zitto davanti ad una provocazione, anche quando il bimbo è nei paraggi. Può accadere ad ognuno di noi. Non è invece altrettanto scusabile che l’adulto poi non rassicuri il bimbo; passata la burrasca è di fondamentale importanza prenderlo vicino e dirgli:” Guarda, può succedere, ma stai tranquillo perché mamma e papà ti vogliono sempre bene”. È importante, dunque, confortarlo sul fatto che ‘i grandi’ a volte possano essere, come dire, un po’ strani e trasmettere l’idea che la lite è un incidente di percorso, un evento che passa... come quando cadi e ti sbucci un ginocchio: fa male ma poi passa. L’errore in cui spesso si cade è ritenere che il bambino, in quanto piccolo, possa non comprendere e di conseguenza non può assolutamente essere giustificato il fatto di ignorare nostro figlio e di non confortarlo quando sia stato testimone di un litigio perché, proprio in quanto così piccolo non può ben comprendere le dinamiche e percepisce solo che qualcosa tra mamma e papà non va. Se rifletto sul fatto che a distanza di oltre vent’anni ricordo ancora chiaramente alcuni momenti di tensione, mi domando come possa aver intimamente vissuto tutti gli inutili litigi e quali conseguenze portarono nel modificare il mio carattere. Ho letto tanto sull’argomento ed ho compreso che, già prima del compimento del primo anno, il bimbo avverte l’alterazione di suoni e movimenti, i toni della voce, il modo dei genitori di guardarsi, i gesti frenetici delle mani; in questi casi basta rassicurarlo attraverso il linguaggio non solo verbale ma anche gestuale. Cullarlo e rasserenarlo abbracciandolo e trasmettendogli con le mani ed il suono dolce della voce che tutto è tranquillo; saper rassicurare è sempre fondamentale. Al tempo stesso però non va sottovalutato l’effetto destabilizzante che comunque anche solo una lite può esercitare su di lui; se noi genitori litighiamo spesso, rischiamo di sgretolare lo spazio affettivo e relazionale con il nostro bimbo. Ciò causa la paura di sentirsi solo, un senso di vuoto e di non appartenenza; per tale motivo cerco di evitare di litigare e discutere con la mia compagna davanti a mio figlio perché, se il problema riguarda la nostra vita di coppia o la nostra professione, gestisco la problematica in uno spazio separato e lontano dallo sguardo e dalle orecchie del piccolo. Mia madre dopo pochi mesi dalla mia nascita rimase di nuovo incinta, neanche il tempo di rilassarsi un attimo ed ecco sfornato il secondo pargoletto, Simone, che è affetto da sindrome di down. Non lo nascondo, non è motivo di vergogna perché non ho mai conosciuto in tutta la mia vita una persona più dolce e sensibile di mio fratello; sono più che convinto che lui abbia portato e porti tutt’ora uno spiraglio di luce nella mia famiglia, un pilastro sul quale potersi sempre appoggiare nella certezza che non crollerà mai. È l’unico che è in grado di tirarti sempre su il morale nelle giornate che hanno preso una brutta piega, nei momenti più difficili per i problemi che ti sembrano insormontabili; basta averlo vicino per percepire energia positiva. È capitato di trovarci tutti insieme a fare terapia di gruppo, qualche anno fa; ci seguivano tre psicologhe che, man mano che ci conobbero più approfonditamente, decisero di dare un soprannome ad ognuno di noi, cercando di rappresentarci nella maniera più vicina alla realtà, e per Simone usarono “il paciere” a voler sottolineare come si adoperasse per riconciliare le persone. Non potevano trovare aggettivo più adeguato e rispondente alla sua personalità. È stato Simone che ha lottato di più per cercare di riunire la mia famiglia, quello che, con i suoi modi particolarmente teneri provava a riconciliare mio padre e mia madre riuscendo a rispettare entrambi i loro punti di vista, senza nuocere la sensibilità di nessuno. Indiscutibilmente, un angelo. Si leggono e si sentono dire cose estremamente fuorvianti sui bambini nati con sindrome di Down e quindi vorrei fare alcune precisazioni poiché sono certo che l’uso corretto delle parole a volte può cambiare la vita delle persone. Cos’è la sindrome di Down? In parole semplici è un’anomalia genetica, una condizione cromosomica ed in Italia nasce con questa sindrome 1 bambino su 800 circa. I bambini down presentano un grado variabile di ritardo nell’apprendimento e nel linguaggio e capacità motorie ridotte che possono andare da lievi a gravi. Inoltre sul piano emotivo, sociale e intellettuale maturano più lentamente. Non dobbiamo però credere che il bambino Down sia un bambino malato perché per lui non sarà facile in questo modo affrontare il suo essere diverso. Chi ha la sindrome di Down è prima di tutto una persona e questo spesso viene dimenticato. In realtà lo sviluppo di queste persone dipende dalla qualità delle premure, dall’educazione e dalle interazioni sociali offerte loro, proprio come per chiunque altro. Mi rendo conto che crescere un figlio affetto da questa patologia non è semplice perché occorrono sforzi, dedizione, pazienza e tanto tempo da dedicargli; ma credetemi, vi ripagherà di ogni cosa perché la dolcezza, la sua semplicità, la sua energia positiva vi faranno dimenticare tutti i sacrifici e sforzi iniziali. Includeteli sempre in tutte le attività familiari, trattateli e disciplinateli come avete fatto per gli altri, tenendo solo presente alcune loro limitazioni. E non abbiate fretta, non cercate progressi immediati perché siete voi che dovete mettervi al loro passo e non viceversa. Se in questo momento, mentre leggete questo scritto, aspettate un bambino e siete al corrente che nascerà con la sindrome di Down, vi prego dal profondo del mio cuore, non siate tristi, non è colpa di nessuno, rimanete sereni e fiduciosi. Vostro figlio sarà una gioia, un valore aggiunto. In ogni caso sarà bellissimo come gli altri e vi amerà con tutto il suo cuore, darebbe la vita per voi, in qualunque momento. Se dovessi definire mio fratello, lo definirei un angelo che non appartiene a questo mondo, che non conosce cosa sia la cattiveria, la negatività e che non sa essere malevolo mentre può portare solo ventate di genuinità e bontà assoluta. Tenevo particolarmente ad aprire questa piccola parentesi perché ho vissute troppe di discriminazioni nei confronti del mio amato fratello, ovviamente non da parte della mia famiglia che su questo è stata sempre profondamente d’accordo con me e vicina a lui in maniera limpida e serena, ma dalla gente che, ancor oggi, è preconcetta nei confronti dei bambini down. Lessi qualche tempo fa, che in una pizzeria in Calabria, dei ragazzi con sindrome di Down furono derisi da tre persone che erano sedute vicino a loro. Queste persone, padre, madre e figlia, dopo essersi lamentati con i camerieri chiesero al gestore perché li avesse fatti entrare lasciarono il locale asserendo che: «Non si può mangiare ci viene il vomito. Capisco che sono malati, addirittura portarli in pizzeria…. Bisognerebbe lasciarli a casa». Nulla da commentare perché non riesco a giustificare chi si comporta in questo modo; il loro comportamento non è solo frutto di ignoranza –intesa come scelta di voler continuare ad ignorare l’esistenza di certe cose-ma è frutto di una radicata insensibilità e sprezzo delle altrui difficoltà. E per questo purtroppo cura non ce n’è. Quando nacque mi ripetevano spesso: “Ormai sei grande, cerca di stare attento a Simone che ha bisogno di attenzioni”. In realtà, dire al figlio maggiore che ormai è grande rispetto al proprio fratellino, lo reputo sbagliato così come dirgli che deve capire le necessità del nuovo nato. In realtà il bambino, in quanto tale, non è in grado di comprendere certe dinamiche ed agire in questo modo significa investirlo di una grande responsabilità che in realtà egli non è ancora in grado di assumersi. Con l’arrivo del nuovo nato non si può pretendere che il primogenito diventi subito autonomo, altrimenti penserà di aver perso la propria posizione di “piccolo di casa”; anche se è il più grande tra i due, è pur sempre un bambino. La paura che il fratello o la sorella siano venuti a “spodestarlo” dalla sua amata posizione, rafforzerebbe in lui una sensazione di abbandono che di sicuro non è senza conseguenze. Certo, ero troppo piccolo per comprendere le necessità del momento, cosa loro pretendevano; già provavano ad addossarmi responsabilità troppo grandi, improponibili. Così, da “piccolo di casa” mi ritrovai a dover dividere, con quello che all’inizio per me era un autentico “sconosciuto”, l’amore dei miei genitori; ma Simone per me è stato di vitale importanza, mi ha ricordato spesso quali sono i veri valori della vita. Voglio raccontarvi e lo farò per ognuno dei miei fratelli, un episodio che ritengo particolarmente significativo o, che più semplicemente, è rimasto impresso nella mia memoria. Era una sera d’inverno e come al solito i miei genitori discutevano: i toni alti, le parole usate pesanti come macigni. Mia madre si stufò e uscì di casa, andò a sbollire altrove. L’energia negativa di mio padre era irrefrenabile. Era nervoso e borbottava da solo in maniera patetica e delirante. In casa c’eravamo solo io e Simone, costretti a subire quell’inopportuno e becero spettacolo. Mi giravano i coglioni, ma decisi di non intervenire e farmi gli affari miei e me ne andai in camera a rimuginare sui loro atteggiamenti, sul loro agire. Non so bene cosa successe, ma ad un certo punto udii Simone urlare in cucina. Balzai dalla sedia e mi diressi lì; lo trovai incazzato nero che sbatteva le sedie e dava i pugni sul tavolo. Era incontenibile e la sua rabbia galleggiava nell’aria e si diffondeva nella stanza; il rossore del suo viso e la sofferenza del suo sguardo non lasciavano alcun dubbio. Di fronte a lui c’era mio padre che sogghignava con aria malinconica e inquietante. Non so di preciso cosa fosse successo, ma con il suo atteggiamento era riuscito a far innervosire anche mio fratello. E ciò ha dell’incredibile perché Simone ha un limite di sopportazione fuori dal normale e difficilmente si lamenta. Per renderlo così aggressivo e fuori di sé sicuramente nostro padre si era messo d’impegno, sicuramente usando espressioni e linguaggi poco consoni. Fatto sta che Simone era esploso, divampato come un incendio nei boschi ad agosto. Quando chiesi a mio padre cosa fosse successo rispose con indifferenza:” Niente, è scemo”… Simone dopo qualche minuto si calmò, ma io non lo ero affatto calmo. I battiti stavano aumentando e sentivo che stavo perdendo il controllo. Mi fiondai in mezzo alle scale, presi la prima pianta che trovai e la sbattei con forza contro il muro, frantumandola in più parti. Il forte baccano allertò mia nonna, che abitava al piano di sotto e che spaventata uscì; quando vide il suo vaso con la pianta distrutta urlò: “Che è successo? Che sta succedendo?” Io in affanno risposi:” Quello stronzo di mio padre sta rompendo i coglioni e quella deficiente di mamma è sparita”. Scesi, quindi, giù in cortile con l’obiettivo di distruggergli l’auto; trovai una mazza di ferro nel parcheggio e mi accingevo a dare a mio padre la punizione che meritava. Nel frattempo mia nonna aveva avvertito mia madre al telefono, che corse a casa allarmata ed arrivò prima potessi causare seri danni. Cercò di calmarmi ma non ne volevo sapere. Girovagavo con quella mazza in cerca di vendetta. Ero nauseato da tutto ciò che accadeva nella mia famiglia e non mi fermai; iniziai a distruggere tutto quello che avevo a tiro tanto da costringere mia madre a chiamare i Carabinieri che, giunti immediatamente, mi chiesero cosa stesse succedendo. “Niente” risposi, ed ancora, “Se quell’imbecille di mio padre non si dà una calmata, lo calmo io”. Ero disperato e lo feci capire.

Specifiche

  • Pagine: 178
  • Anno Pubblicazione: 2020
  • Formato: 150*210
  • Isbn: 978-88-31243-20-9
  • Prezzo copertina: 15€

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