Seconda puntata scriptor parte seconda

Seconda puntata scriptor parte prima

I partecipanti

Leggi gli elaborati dei partecipanti e vota lo scrittore che hai preferito.
Il sondaggio e la possibilità del voto sarà attiva solo DOPO la prima visione della trasmissione (alle ore 14) e solo per 72 ore.
Per votare clicca sul bottone sottostante e inserisci nell'oggetto il nome dello scrittore che hai scelto

Il tasto "Vota" apparirà subito dopo la messa in onda della puntata

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Nella prima parte della puntata i partecipanti affrontano il pitch ovvero una prova che prevede l'esposizione del proprio progetto letterario entro il tempo complessivo di due minuti.
Successivamente i giudici propongono due esercizi: la Roulette russa e Il Falso d'autore.
I partecipanti hanno avuto tre giorni di tempo per compiere gli esercizi e ora li trovate scorrendo la pagina in basso.

Nella seconda parte della prima puntata ci sarà la sintesi dei voti ottenuti, compreso il voto del pubblico a cui potete contribuire votando in alto a destra, e si definirà la classifica finale. Il partecipante che avrà ottenuto il punteggio più alto passerà alla seconda fase.
Nella seconda parte della puntata avremo un ospite che contribuirà con il proprio voto.

Roulette russa

Creare un racconto di massimo 3600 caratteri spazi compresi con tre ingredienti proposti dai giudici: un tema, un genere letterario, un luogo

  • Tema: Sfruttamento lavoro minorile
  • Genere: Western
  • Luogo: Giappone

Dorei (schiava)

 

Come Bill fosse giunto in una terra tanto lontana dalle Grandi Pianure nessuno lo sapeva, né glielo aveva mai chiesto Heitachi, che da mesi gli camminava al fianco. Una marcia silenziosa, la loro, i logori stivali di Bill e i geta di Heitachi, curioso ritmo sulla via polverosa. Gli speroni tintinnavano e luccicavano al tramonto che allungava le ombre tremule. Black era morto da tempo, ma Bill continuava a indossare quegli speroni, quasi sperasse ancora di vedere l'amico quadrupede galoppare verso di lui e accoglierlo sulla sua sella. Aveva imparato il giapponese nei locali malfamati, ascoltando gli avventurieri, le poche frasi che gli servivano. Il sole all'orizzonte si immergeva sempre più tra le rocce aguzze, pareva un cheyenne rimpiattato tra i cespugli, pronto a balzar fuori ringhiando. Sapevi sempre cosa aspettarti da un pellerossa. I musi gialli no, erano subdoli, scaltri, dei veri serpenti a sonagli, ma anche leali fino alla morte, proprio come il giovane Heitachi. Il vento ghiacciato ululava e fischiava tra le rocce, faceva vibrare il cappello a falda, bagnato di pioggia e asciugato chissà quante volte.

L'insegna, una tavola di legno che cigolava all'oscillare di due catenelle metalliche, la porta aperta, tre gradini e una bambina sudicia e scheletrita, inginocchiata sul secondo, i capelli malamente tagliati che le davano un aspetto rognoso. Con una brusca strofinava il legno opaco. Li guardò passare con enormi occhi neri che dicevano “fame”. All'interno, nella penombra, un vecchio abbandonato su una poltrona, una sdrucita coperta sulle gambe.

«Del sakè» ordinò Heitachi. Il vecchio annuì. «Keiko» gridò. La bambina schizzò dietro il bancone e, rizzandosi sulle punte, prese una bottiglia e due bicchierini.

«È vostra nipote?» domandò sospettoso Bill mentre la piccola versava con paurosa cautela il liquore. Il vecchio esplose in una catarrosa risata. «Macché, l'ho comprata, è brava e fa tutto lei» e le diede una carezza che non prometteva nulla di buono col dorso della rugosa mano. Bill notò un tremito nelle spalle della bimba, immaginò le privazioni, la paura, il duro lavoro. «Lei viene con noi» tuonò. Il riso del vecchio si mutò in uno stridore maligno. «Figli» gridò con voce roca. Entrarono tre montagne di muscoli, i piedi nudi in fondo a enormi polpacci, i pugni chiusi, in posizione di attacco. Ognuno stringeva un coltello a lama ricurva, l'unica cosa perfettamente lucente in tanto squallore. Per un attimo si udì solo il cigolio dell'insegna, poi il primo figlio gettò un grido e si avventò su Bill, che lo schivò con agile mossa. Heitachi fece una capriola, il suo zoccolo con uno scatto ruppe la mascella dell'avversario, che crollò a terra, le mani al volto insanguinato. Gli altri schizzarono insieme, Bill estrasse la colt e centrò l'orecchio dell'uno, Heitachi con la katana affettò quello dell'altro, un gesto così leggero che lui neanche sentì dolore, percepì qualcosa di caldo e bagnato e con stupore ritirò una mano tinta di rosso. Imbestialiti, i due brandirono i coltelli: «La bambina è nostra, fa tutti i lavori da quando mamma è morta, l'abbiamo pagata!» Il primo si avventò su Bill e si beccò una caramella in mezzo alla fronte, crollando con un'espressione stupefatta, il fratello si lanciò su Heitachi e la sua testa rotolò sbigottita sul pavimento. Il vecchio gridava, inchiodato alla sua sedia.

Il sole era ormai un ricordo, il crepuscolo tingeva di piombo terra, rocce e arbusti; sulla via polverosa a stento si distinguevano tre figure scure, un codino, un cappello, e una più piccolina in mezzo a loro.   

 

LA VIA DELLA REDENZIONE

 

 

 

Isola di Tsushima. Luna calante.

 

Il ronin1 fu attratto dalla luce tremolante del fuoco che crepitava contro il fianco della montagna.

Si avvicinò senza far rumore e si trovò a pochi passi dalla testa stopposa di un ragazzino pelle e ossa seduto a gambe incrociate in mezzo all’erba.

Il ronin si spostò di lato per vedere il profilo di quella strana creatura che la luce della fiamma continuava a modellare e la voce affilata del ragazzino gli attraversò la schiena quasi fosse la lama della sua wakizashi2.

“Se sei venuto per riportarmi dal tuo signore, è meglio se mi uccidi subito.”

Il ronin uscì dall’ombra e due occhi neri da demonio lo scrutarono pronti a dargli battaglia.

“Non voglio farti del male.”

“Non mi fai paura.”

“Come ti chiami?”

“Ryuzo.”

“Dove sono i tuoi genitori?”

“Sono orfano.”

“Cosa ci fai qui tutto solo?”

“Aspetto che faccia giorno.”

Il ronin si sistemò davanti al fuoco, frugò nella sacca e allungò al piccolo uomo un pezzo di carne salata.

“Mangia e raccontami la tua storia.”

 

Isola di Tsushima. Due giorni dopo.

 

Il vento sollevò un pugno di sabbia che si sparse come sale pochi metri più avanti. Il ronin smontò da cavallo e mise a fuoco i cinque samurai a guardia della dimora del daimyo3 disposti a ventaglio intorno a lui.

“Cosa sei venuto a fare qui, reietto?” gli chiese quello al centro sfoderando la katana. “Ti sei forse perso alla fine del Meifumado4?”

Il ronin socchiuse gli occhi.

“L’onore non si può togliere, si può solo perdere. E se oggi sono qui, è perché è arrivato il momento di ritrovarlo.”

“Allora è meglio se ti prepari a concimare la terra.”

Il samurai fece un cenno ai suoi uomini e tutti misero mano alle spade.

Il ronin cominciò a girare in tondo tenendo le braccia lungo i fianchi. Studiava i movimenti dei cinque guerrieri e intanto inspirava ed espirava per lasciare fluire l’energia dentro il suo corpo.

Un samurai basso e tozzo scattò in avanti e il ronin sentì la lama sibilare a pochi centimetri dalla testa. Il guerriero ruotò su se stesso e tornò a colpire, ma il ronin se lo tolse di torno centrandolo alla tempia con il dorso della mano. Il secondo samurai sollevò la katana e si lanciò all’attacco, ma il ronin lo colpì al petto con un pugno d’acciaio. Il terzo guerriero roteò la spada e il ronin sfoderò la sua wakizashi e lo trafisse senza dargli il tempo di battere le palpebre. Poi, disegnò dei piccoli cerchi con i piedi e guardò i due guerrieri rimasti.

“Tocca a voi.”

Il quarto samurai sbiancò e se la diede a gambe.

Il quinto, rimasto solo, fissò il reietto quasi avesse davanti il Demone della Montagna in carne e ossa.

“Dimmi cosa vuoi.”

“Liberare i trenta bambini che il tuo padrone tiene nelle segrete del palazzo e che costringe a lavorare nei suoi campi come schiavi.”

Il samurai abbassò gli occhi e rinfoderò la katana.

“Quei bambini meritano la libertà. Ti sei ripreso l’onore.”

Il ronin trovò il daimyo nella sala da tè.

“Come osi entrare senza permesso!”

Il ronin gli accarezzò il collo con la spada.

“Libera gli orfani o sarà l’ultima volta che vedrai la tua testa attaccata al corpo.”

 

Isola di Tsushima. Tre giorni dopo.

 

Il ronin portò i bambini al Tempio dei 47 Samurai senza Padrone e, prima di andarsene, prese da parte Ryuzo e gli regalò la sua wakizashi.

“Un giorno, questa lama ti porterà dal daimyo che ti ha ridotto in schiavitù e ti aiuterà a consumare la tua vendetta.”

 


1 Letteralmente “uomo alla deriva” e designava il samurai decaduto, rimasto senza padrone o per la morte di quest’ultimo o per averne perso la fiducia.

 

2 Spada portata dai samurai insieme alla katana.

 

3 Il signore feudale.

 

4 La via della dannazione.

 

_____A NORD. ____

 

«E come pensi di fare Xet?».

«Gli strapperò le palle a quel porco».

«Per Buddha, non ti sto chiedendo cosa farai. Sto chiedendo come farai».

«Calmati, Ashi. La notte ha mille stelle, ogni uomo ha la sua. Tu pensa solo a stare pronto».

Il muro era alto. Ma non quanto Xet avena immaginato. Sorrise.“Bene, la notte mi è amica”.

Lanciò il piccolo cavo d’acciaio, poi tirò piano sino a che lo sentì bloccarsi. La testa a tre punte aveva funzionato. La piccola Mory era nervosa. Xet la coccolò. E lei si calmò. Lui ascoltò la notte: muta e tranquilla. Sorrise ed iniziò a salire. Quando fu in cima guardò di sotto. Silenzio e buio “Il bastardo si sente sicuro. Ma la sua stella si sta spegnendo”.

Il vento scosse le chiome dei vecchi aceri; in alto, la luce della grande villa. Xet issò la piccola Mory, l’accarezzò. Poi la calò fissandola rassicurante. Infine scese anche lui. «Vai piccola. Ora tocca a te».

Mory lo fissava indecisa. Con un piccolo colpo la spinse avanti. Lei sentì l’erba, curata e umida, darle una sensazione di libertà. «Vai bella. Ti aspettano». La cagnolina corse via, nel buio.

Xet attese sino a che sentì i cani abbaiare. Si erano accorti che vi erano intrusi. E vennero ringhiando, per fare il loro lavoro. Poi si fermarono, avevano intercettato Mory. Xet corse, veloce e guardingo, verso la villa. I cani ora uggiolavano nervosi, ma pacifici. Cani in calore. La passione è il più forte dei comandi.

La piscina rispecchiava le tenue luci accese. In fondo, una grande poltrona di vimini conteneva a stento quella pingue palla di lardo: Shirai. L’esile luce, un bicchiere di buon sakè ed un sigaro aiutavano Shirai a pettinarsi i pensieri, a vezzeggiare i suoi lerci piani. I cani si erano calmati. “Solo un falso allarme, forse un animale notturno”.

Xet, si mosse furtivo, tenendosi nell’ombra. Quando Shirai avvertì la sua presenza, Xet, il predatore notturno, era già alle sue spalle. La mano di Shirai rapida sul tavolino accanto.

«Non ti muovere, vecchio pedofilo, o avrai subito la tua razione di piombo».

«Chi sei?».

«Fermo! Se non vuoi che questa mia amica si innervosisca».

Il freddo silenziatore della pistola puntava contro la testa pelata che andava inumidendosi di caldo sudore.

«Possiamo parlare...».

«Ora tieni le mani alzate e portami dai piccoli tailandesi».

«Se è loro che ti interessano, non c’è problema».

«Zitto ! E cammina».

 

I due raggiunsero la stanza che Shirai chiamava “dei sogni”;

ma che per i piccoli tailandesi era “la stanza degli incubi”.

Quando vi fu luce nella stanza, i ragazzini si chiusero a riccio. Atterriti e succubi.

«Come dicevo, possiamo parlare. Puoi scegliere».

Lo sguardo di Xet lo colpì come la lucida lame di una katana.

«Lurido verme, è giunta la tua ora. Tra poco parlerai solo coi demoni».

Il silenziatore affondò nel lardo di quel collo taurino. «Togli gli allarmi, e non ti sbagliare.

La mia amica è sensibile ad ogni piccolo rumore. Noi dobbiamo uscire da questa lurida stalla».

Quando furono fuori, Xet indicò ai piccoli un furgone che li attendeva.

Ashi aprì il portellone: «Per mille spiriti Xet, ci sei riuscito».

I ragazzini sgomenti si muovevano come automi.

Xet, con la sua pistola, continuava a puntare il tremolante padrone di casa; ridicolamente avvolto nel suo chimono svolazzante. Ora era solo più un pavido coniglio. Un lardoso codardo.

«Forza! Al porto troverete un amico che vi riporterà a casa. Per voi gli incubi sono finiti».

Anche Mory uscì scodinzolando dal cancello. Sfacciata signorinella.

Ashi agitato spinse i piccoli sul furgone.

«E tu?».

«Io devo ancora fare ciò che ti avevo promesso», Spostando Shirai verso la casa.

«Ma dopo, dove andrai dopo?».

«A nord. Il posto migliore per contemplare le stelle».

Falso d'autore

Viene proposto l'estratto di un romanzo famoso, l'esercizio consiste nello riscriverlo convertendolo in un genere letterario diverso dall'originale e in un tempo specifico

  • Testo da convertire: Cinquanta sfumature di grigio
  • Genere in cui convertirlo: horror
  • Periodo storico da usare: Antica Roma

"Baciami, dannazione!” lo imploro, ma non riesco a muovermi. Sono paralizzata da un bisogno sconosciuto, completamente ammaliata. Sto fissando, ipnotizzata, la bocca perfettamente scolpita di Christian Grey, e lui mi guarda con gli occhi socchiusi, lo sguardo torbido. Ha un respiro più pesante del solito, mentre io ho smesso del tutto di respirare. “Sono tra le tue braccia. Baciami, ti prego.” Lui abbassa le palpebre, respira a fondo, e scuote piano la testa come in risposta alla mia muta richiesta. Quando riapre gli occhi, sembra avere una nuova, incrollabile convinzione.
«Anastasia, dovresti stare alla larga da me. Non sono l’uomo per te» mormora, passando al tu. “Cosa? Perché mai dice una cosa del genere?” Semmai, dovrei essere io a giudicare. Lo guardo di traverso, confusa dal suo rifiuto.
«Respira, Anastasia, respira. Adesso ti aiuto a rimetterti in sesto e ti lascio andare» dice piano, e si stacca con dolcezza.
Una scarica di adrenalina mi ha attraversato il corpo, per lo scontro mancato con il ciclista o per l’inebriante vicinanza di Christian, lasciandomi debole e stordita. “No!” urla la mia vocina interiore quando lui si allontana, lasciandomi a secco. Mi tiene le mani sulle spalle, studiando le mie reazioni. E l’unica cosa a cui riesco a pensare è che volevo essere baciata, mi si leggeva in faccia, e lui non l’ha fatto. “Non mi vuole. Ho mandato a puttane il nostro appuntamento, non c’è dubbio.”«Ho capito» mormoro, recuperando la voce.
«Grazie» sussurro umiliata. Come ho potuto fraintendere fino a questo punto quel che c’era tra noi?
Devo andarmene subito.
«Per cosa?» chiede, senza togliermi le mani dalle spalle.
«Per avermi salvata» mormoro.
«Quell’idiota stava andando contromano. Meno male che c’ero io. Mi vengono i brividi se penso a cosa poteva succederti. Vuoi entrare un attimo nell’hotel e sederti?» Lascia cadere le braccia lungo i fianchi, e io, in piedi di fronte a lui, mi sento una stupida.
Scuoto la testa per schiarirmi le idee. Voglio solo andarmene. Tutte le mie vaghe, inespresse speranze sono state distrutte. Lui non mi vuole. “Cosa ti eri messa in testa?” mi rimprovero. “Cosa potrebbe volere da te uno come Christian Grey” mi sbeffeggia la vocina interiore. Mi circondo con le braccia e mi giro verso la strada, notando con sollievo che è apparso il verde. Mi affretto ad attraversare, sapendo che Grey è dietro di me. Davanti all’hotel, mi giro un attimo verso di lui, ma non riesco a guardarlo negli occhi.
«Grazie per il tè, e per le foto» mormoro.
«Anastasia… io…» Si interrompe, e il suo tono angosciato reclama la mia attenzione, quindi, riluttante, lo guardo. Si sta ravviando i capelli, con uno sguardo triste. Sembra lacerato, frustrato, la sua espressione severa, il suo perfetto autocontrollo sono evaporati.
«Cosa c’è, Christian?» sbotto irritata, dato che non completa la frase. Voglio solo andarmene via. Ho bisogno di portare lontano il mio fragile
orgoglio feritoe trovare il modo di curarlo.
«In bocca al lupo per gli esami» sussurra.
“Come???!!!” È per questo che ha un’aria così desolata? È questa la grande frase d’addio? Un inbocca al lupo per gli esami?
«Grazie.» Non riesco a mascherare una nota di sarcasmo. «Addio, Mr Grey.» Giro sui tacchi, meravigliata di non inciampare, e senza più voltarmi sparisco lungo il marciapiede, in direzione del parcheggio sotterraneo.

Colloquium

 

«Baciami...» La mia voce è un gemito. Il tribuno Marco Valerio è così diverso, ora. Eppure non posso non desiderarlo, non pensare ai nostri convegni furtivi agli archi dell'acquedotto, fuori Roma. Se alzo lo sguardo sulle labbra tumefatte e incrostate di sangue rappreso, ho un brivido. Gli occhi sono orbite cieche, profondi come pozzi, il naso una caverna. Nel silenzio parla solo il rantolo del suo respiro, e vorrei non udirlo. Serro le palpebre, per immaginarlo com'era, nobile nella sua toga di lana fine. “Anelo a stare ancora tra le tue braccia. Baciami, ti prego.” Sembra leggermi nel pensiero, allunga la mano verso di me, so che la carne putrida si sta staccando, denudando il bianco delle ossa. Prendo coraggio, lo fisso in quel suo volto violaceo, gli zigomi sporgenti; apre la bocca e i denti grigiastri e macchiati somigliano alle piccole pietre che lastricano il foro. 

«Clelia, non lo vedi, per gli dei? Sono morto, la mia carne si sta corrompendo, come potresti unirti a un cadavere?» gorgoglia. Scuoto forte la testa, non voglio ascoltare. «Portami con te, uccidimi.» Chino il capo, le dita gelide si chiudono attorno al mio collo, trattengo il fiato, sento il suo su di me; sa di tomba. Per un attimo mi arriva il torpore della morte.

«Respira, Clelia, tu che puoi farlo ancora. Ti lascio andare» e si stacca mesto. Ripenso alla biga lanciata a tutta velocità sul decumano, lo strepitio degli zoccoli, le froge del cavallo a un palmo dal mio viso, la spinta potente di Valerio, le ruote che frantumano le sue ossa, il sangue come una fontana. Le ferite si contano sul suo corpo lordo di terra, la pelle cade a brandelli. Orribile, eppure anelo a sfiorare quelle labbra che non sono neppure un pallido ricordo della bella bocca carnosa che si posava lieve sulla mia. Lui non vuole, si allontana.

«Grazie» sussurro mesta. Come ho potuto sperare che tutto potesse essere come prima?

«Per cosa?» chiede fissandomi con le orbite vuote. Gli occhi devono essere la prima cosa che la terra dissolve.

«Per avermi salvata.»

«Quella biga andava come il fulmine di Giove. Meno male che c’ero io. Rabbrividisco se penso a cosa poteva succederti.» Mi sento smarrire. «Ma tu sei morto... morto!»

Voglio andarmene, ora. Tutte le mie vaghe speranze sono svanite, lui presto sarà un mucchietto di polvere. Mi cingo per scacciare il gelo che mi ha invasa e mi giro verso la strada; Valerio mi segue. Presso il tempio di Diana mi volto, ma non riesco più a guardarlo.

«Clelia, io…» Si blocca, e il suo tono stentato e angosciato ha bisogno della mia attenzione; seppur riluttante, alzo lo sguardo. Si è portato una mano al cranio, la pelle sottile e rade ciocche di capelli impastate di sangue, il collo piegato in una posa triste. Affranto, la sicurezza di poco fa è evaporata.

«Cosa c’è, Valerio?» Se lo stanno mangiando i vermi, questa è la realtà. Ho bisogno di portare lontano la mia pena e cercare di dimenticare.

«Gli dei ti donino una vita propizia.» La sua voce è ormai un sibilo leggero.

«Grazie, e a te un sereno passaggio» ribatto piena di rabbia, perché morendo mi ha lasciato sola. «Addio, Marco Valerio.» Giro sui calzari – strano che non inciampi – e senza voltarmi sparisco oltre le alte colonne del tempio, verso la mia insula, come di ritorno da un appuntamento segreto ai margini del suburbio.

LE SFUMATURE DELLA FOLLIA di Andrea Mariani

 

«Non toccarmi!» lo imploro, ma non riesco a muovermi. Sono paralizzata, completamente bloccata dalla paura. Sto fissando, terrorizzata, la bocca spalancata di Nerone, e lui mi fissa con gli occhi stravolti, lo sguardo folle. Ha un respiro pesante, da demonio, mentre io ho smesso del tutto di respirare.

«Sono tua madre, ti prego, non uccidermi!»

Lui abbassa la lama del pugnale, respira a fondo, e scuote piano la testa come in risposta alla mia supplica. Quando riapre gli occhi, sembra avere una nuova, incrollabile maschera da attore.

«Madre, dovresti stare alla larga da me. Non sono più il figlio che conosci» mormora, passandomi un dito lungo la ferita che mi lacera la tempia.

«Cosa? Perché mai mi dici una cosa del genere? Semmai, dovrei essere io a rinnegarti.» Lo guardo di traverso, confusa dal suo cambiamento.

«Respira, madre, respira. Adesso ti aiuto a rimetterti in piedi e ti lascio andare» dice piano, e si stacca con dolcezza.

Una scarica di dolore mi attraversa il corpo, per il colpo che Nerone mi ha dato alla testa, lasciandomi debole e stordita.

“No!” urla la mia voce interiore quando lui si allontana, lasciandomi sola.

Tiene la schiena piegata in avanti, studiandosi le dita sporche del mio sangue. E l’unica cosa a cui riesco a pensare è che volevo essere uccisa, mi si leggeva in faccia, e lui non l’ha fatto. Non mi vuole più neppure guardare. Ho scoperto la sua natura debole e ho rovinato i suoi piani, non c’è dubbio.

«Che gli dei ti perdonino» mormoro, recuperando la voce. «Grazie» sussurro poi umiliata.

Come ho potuto fraintendere fino a questo punto quel che c’era tra noi? Non mi vede come un’alleata, ma come un ostacolo. Devo andarmene subito.

«Per cosa dovrebbero perdonarmi?» chiede, dandomi le spalle.

«Per non avermi strappato il cuore dal petto» mormoro.

«Sono stato un folle a pensarlo. Per fortuna mi sono fermato. Mi vengono i brividi se penso a cosa stavo per farti con questo pugio. Sarei arrivato a violare il tuo ventre come ho fatto con mia moglie Ottavia.»

Lascia cadere il pugnale, e io, in piedi di fronte a lui, mi sento una stupida. Scuoto la testa per schiarirmi le idee. Voglio solo andarmene. Tutte le mie vaghe, inespresse speranze sono state distrutte. Lui non mi vuole al suo fianco. “Cosa ti eri messa in testa?” mi rimprovero. “Cosa potrebbe volere da sua madre l’imperatore dell’Urbe” mi sbeffeggia la voce interiore. Mi stringo le braccia al petto e mi giro verso il vestibulum, notando con sollievo che è apparsa una guardia pretoriana. Mi affretto ad andargli incontro, sapendo che Nerone è dietro di me.

A un passo dalla libertà, mi giro un attimo verso di lui, ma non riesco a guardarlo negli occhi.

«Ho tagliato la gola a tuo padre Claudio solo per governare Roma accanto a te» mormoro.

«Madre… io…»

Si interrompe, e il suo tono angosciato reclama la mia attenzione, quindi, riluttante, lo guardo.

Si sta leccando le dita, con uno sguardo triste. Sembra lacerato, frustrato, la sua espressione severa, il suo perfetto autocontrollo sono evaporati.

«Cosa c’è, fili mi?» sbotto irritata, dato che non completa la frase. Voglio solo andarmene via. Ho bisogno di portare lontano il mio fragile corpo ferito e trovare il modo di curarlo.

«Addio» sussurra come una strige pronta a banchettare con la carne del morto.

“No!”

È per questo che non vuole guardarmi? È perché mi vuole far uccidere dalla sua guardia? Così spetta a un umile servitore togliere la vita alla grande Agrippina?

«Te visurum. Il mio spettro tornerà a tormentarti.» Non riesco a mascherare una nota di sarcasmo. «In fondo, hai sempre avuto paura di me.»

Ruoto il busto, meravigliata di non inciampare, e senza più voltarmi mi lascio infilzare dal gladio del pretoriano che mi lacera il ventre e mi libera l’intestino dai visceri che sporcano il pavimento a mosaico della Domus Aurea.
 

IO VENGO A SEPPELLIRE CESARE, NON A LODARLO.

 

Gaio sentiva il cuore impazzirgli alle tempia.

All’esterno le urla dei suoi pretoriani disperatamente impegnati nella lotta.

Chiuse gli occhi e rivide la testa del suo fido Servinio aprirsi come un frutto maturo sotto

il fendente che quello schiavo negro gli aveva vibrato, usando le catene che gli serravano i polsi.

Per alcuni istanti Servinio aveva corso, impazzito dal dolore,cercando di prendersi fra le mani ciò che restava della sua testa orribilmente maciullata.

Gaio vide due colossi neri venire avanti brandendo come armi le catene ai polsi.

Dietro ai primi due negri veniva un terzo che stringeva fra le mani un lungo coltello.

Vide che sanguinava dal petto, era stato colpito, ma il negro pareva insensibile alla ferita

e gli era ormai sopra. La lama del lungo coltello gli entrò nel petto quasi a voler liberare

chi in quel petto stava impazzendo. Sentì il freddo di quella lama mitigarsi al tepore del suo sangue.

Poi Gaio fece ancora in tempo a pensare: “ Stanno cercando il cuore … il mio cuore

 

Incubi, sogni o presagi? Gaio si scosse. L’aria del mattino era ancora fresca e lo riconciliò

con la realtà. Si vestì, senza chiamare nessuno dei suoi servi. E uscì. Aveva un appuntamento.

Quando giunse all’agorà , lui lo stava già aspettando.

Il saluto suonò falso, sinistro; fra il vociare della plebe:

«Ave, Gaio Giulio. Che il giorno ti possa appagare».

«Salute a te, Marco Giunio. Gli Dei sempre ti guidino».

I due cercarono con lo sguardo l’angolo più appartato e tranquillo della piazza e vi si diressero.

«Or dunque Gaio, cos’è che ti ha spinto a cercarmi? Forse le voci che ti dicono in pericolo?».

«Non temo chi trama nelle tenebre. So bene che solo in me stesso posso avere certezza.

Raggiungerò dopo il senato per ascoltare le querule lamentazioni di quei pavidi politicanti.

Ho ben donde di che tacitarli; loro son solo inutili orpelli di tempi tramontati.

Da te, o Marco, desidero ben altro. Vuoi essere ospite mio nella notte che verrà?»

«Chi altri allieterà il convivio?».

«Nessun altro che la dea Afrodite. Da quando ti adottai desidero poterti intimamente parlare.

Anzi ti ho adottato proprio per poterlo fare»

«Taci Gaio, sei troppo risoluto. Ho colto da tempo il tuo interesse per me. Ma ancora non sento giunto il momento; ancora Afrodite non mi ha toccato».

«Se non fossi così determinato, pensi forse che sarei tornato dalle Gallie vincitore?

In quanto ad Afrodite ho invitato anche lei. Vedrai raggiungerà pure lei la mia Domus

e fugherà le tue esitazioni. Sarà una notte indimenticabile».

«Cogiterò durante il giorno tutto su questo tuo invito. Sappi però che anche altre sono le decisioni che son chiamato a prendere prima che giunga la notte. Gravi saranno le conseguenze del mio possibile agire; tu stesso potresti esserne coinvolto. Ma in questo caso non sarà Afrodite a guidarmi bensì Thanatos»

«Qualunque sia il tuo agire spero che la notte porti a me la pace che i sensi ora desiderano».

 

Tutto iniziò con un colpo di pugnale alla gola, da dietro le spalle. Con un gemito Gaio afferrò

il braccio di colui che lo aveva sferrato dicendo: «Che fai scellerato?». Tentò di divincolarsi,

ma subito giunse un altro colpo al petto. Da ogni parte gli si strinsero intorno volti che credeva amici.

Ora però Gaio vedeva solo il balenare dei pugnali. Tentò di ripararsi il capo e con la toga la parte bassa del corpo. Il suo sangue schizzò copioso sulla statua di Pompeo che troneggiava nell’atrio del senato.

Vide venirgli incontro Giunio che col suo stilo lo colpì con forza.

« Anche tu Marco Giunio Bruto, figlio mio ?!?».

Sentì il freddo di quella lama mitigarsi al tepore del suo sangue.

Poi Gaio Giulio Cesare fece ancora in tempo a pensare: “ Sta cercando il cuore … il mio cuore”.
 

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