Guarda puntata scriptor

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I partecipanti

Leggi gli elaborati dei partecipanti e vota lo scrittore che hai preferito.
Il sondaggio e la possibilità del voto sarà attiva solo DOPO la prima visione della trasmissione (alle ore 14) e solo per 72 ore.
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Nella prima parte della puntata i partecipanti affrontano il pitch ovvero una prova che prevede l'esposizione del proprio progetto letterario entro il tempo complessivo di due minuti.
Successivamente i giudici propongono due esercizi: la Roulette russa e Il Falso d'autore.
I partecipanti hanno avuto tre giorni di tempo per compiere gli esercizi e ora li trovate scorrendo la pagina in basso.

Nella seconda parte della prima puntata ci sarà la sintesi dei voti ottenuti, compreso il voto del pubblico a cui potete contribuire votando in alto a destra, e si definirà la classifica finale. Il partecipante che avrà ottenuto il punteggio più alto passerà alla seconda fase.
Nella seconda parte della puntata avremo un ospite che contribuirà con il proprio voto.

Roulette russa

Creare un racconto di massimo 3600 caratteri spazi compresi con tre ingredienti proposti dai giudici: un tema, un genere letterario, un luogo

  • Tema: Tradimento
  • Genere: Fantastico
  • Luogo: Un paesino del Vermont

 SUPERBOWL

Salutò Ann con un bacio stampato sulle labbra. Non era il grande amore e non gliel’aveva mai fatto credere. Certo non era un sacrificio fare sesso con lei, anche perché sulle sue labbra sentiva, impareggiabile, il profumo della rivalsa. Lui, Ed, lo sfigato della famiglia, sempre all’ombra del fratello Rob, il “capo” in azienda, lo studente modello al college, perfino medagliato nell’ennesima guerra del golfo.

Ma stavolta era lui a vincere, portandosi a letto la cognatina!

Non era la prima volta che succedeva, ma stavolta sarebbe stato fantastico! Due giorni tranquilli nel suo cottage, mentre il fratellino si sciroppava chilometri e chilometri per tutto il Vermont, nel suo amatissimo fuoristrada.

“Ma come hai fatto a convincerlo?”, chiese Ann, mentre si sfilava i jeans. Non era venuta per perdere tempo.

“Convincerlo? Non ce n’è stato bisogno! Gli ho perfino chiesto di accompagnarlo! E mi ha risposto… per far saltar via tutti i contratti? Stattene qui e organizza il tuo ufficio, tanto fra un paio di giorni sono di ritorno! E si è fatto la sua solita odiosa risata!”

Accese la tv. Ann gli si avvicinò e, strisciando sinuosa sul suo corpo, gli chiese:

“Non vorrai vederti il super bowl, stasera…”

“Ci fa da sottofondo… tu non preoccuparti”, le rispose abbracciandola e facendo scivolare via la t-shirt di lei. Non aveva nulla sotto. No, non era venuta per perdere tempo.

Si stese sul letto e l’avvicinò a sé. E mentre cominciava la sfida che teneva tutta l’America con gli occhi puntati sul teleschermo, Ed si prese il suo Superbowl.

Il rumore di vetri infranti li destò.

“Che succede?” chiese Ann, coprendosi con il lenzuolo.

Ed si alzò seminudo e nell’oscurità quasi totale che circondava la stanza, intravide un piccolo fagotto sul pavimento. Ma il fagotto si mosse, emettendo uno strano verso, come una risata stridula.

“E’ solo un falco, ha rotto la finestra ed è entrato… sarà spaventato, fuori c’è tempesta”

Si alzò e si diresse verso l’ospite, ma prima di poterci mettere le mani sopra, il volatile emise di nuovo quel suo sinistro richiamo.

“Ed… quel verso… quella risata! Non la senti? E’ la risata di Rob! E’ quel suo maledetto ghigno!”, gridò Ann, terrorizzata, rizzandosi in piedi.

“Ma smettila! E’ solo un falco, un maledetto falco. Ti faccio vedere io…” avanzò ancora, ma l’animale spiccò il volo per atterrare sulla testa di Ann, avvinghiandosi con i forti artigli ai suoi lunghi capelli.

La donna, sconvolta, corse verso la porta d’uscita, mentre il falco non mollava la presa.

“Stai calma!”, le urlò Ed, prendendo la pistola che teneva sempre nel comodino. La rincorse fuori, con l’arma in pugno, ma il falco le era troppo vicino, per poter sparare.

Cominciò a scendere le scale che dal cottage portavano alla radura circostante, mentre Ann, sempre più terrorizzata, procedeva seminuda verso il bosco.

Successe tutto in un attimo. Dopo i primi tre scalini mise un piede in fallo, cadendo rovinosamente da più di cinque metri.

E mentre il collo si spezzava sotto il peso del suo corpo, la mano schiacciata verso il grilletto della pistola, lasciò partire il colpo.

La centrò in piena nuca, come non avrebbe saputo fare nemmeno il suo pluridecorato fratello.

“E dopo le notizie sul Super Bowl, cari telespettatori, passiamo alla cronaca locale. Tragica fatalità nei sobborghi di Middlebury. Nella stessa notte in cui Rob Wallace, noto imprenditore locale è perito in un incidente d’auto sulla strada per Montpelier, ritrovati i cadaveri di sua moglie e del fratello Ed, nella radura intorno al cottage di quest’ultimo. Le cause del duplice decesso sono ancora da accertarsi”

Il tesoro dei folletti.

 

Ted Carter acquistò la terra dei Sullivan per due soldi, dopo averne deliberatamente causato la rovina. Si trattava di una grande proprietà nei pressi di Stowe, nel Vermont, che comprendeva parte della Cady Hill Forest.

Ted voleva trasformare la fattoria in una segheria. C’era tanto di quel legname da poter diventare ricco e Ted era sempre stato un uomo avido.

Il giorno in cui abbatté il primo albero ci fu la prima apparizione. Un omuncolo, piccolo e irrequieto, con un abito scarlatto e un berretto verde a sonagli gli apparve dal nulla. L’omuncolo rimase a fissarlo con sguardo truce senza dire nulla, poi svanì di colpo proprio come era apparso.

Ogni volta che Ted abbatteva un nuovo albero il folletto riappariva. Carter non era tipo da lasciarsi impressionare ma, col passare del tempo, il ripetersi delle visite cominciò a infastidirlo. Un mattino, al comparire di quella strana creatura, Carter sbottò «in nome di Dio! Chi sei? Cosa vuoi?»

«Mi chiamo Puk e sono un folletto. Voglio che tu smetta di distruggere il bosco»

«Questa foresta è mia e mi serve il legname per far funzionare la segheria»

«Ti propongo un patto. Ti mostrerò dove è sepolto il tesoro magico dei folletti se tu, in cambio, smetterai di abbattere gli alberi»

Carter alla parola oro si fece subito più attento «Hai detto tesoro?»

«Sì, un forziere pieno di monete d’oro»

«E dove si trova questo forziere?»

«Te lo dirò a patto che tu prometta di non abbattere più neanche un albero»

Carter, pur non avendo alcuna intenzione di mantenere la sua promessa, mise una mano sul cuore e disse «lo giuro!»

Puk, che non si fidava di quell’uomo, lo ammonì «Sappi che se menti il Diavolo si prenderà la tua anima. Ora seguimi!»

Il vecchio seguì Puk nel bosco. Giunti davanti a un tumulo di pietre, il folletto si fermò e disse «il tesoro è qui sotto» poi svanì nel nulla.

La sera seguente Carter tornò al tumulo e cominciò a scavare. La sua vanga incontrò presto un oggetto metallico che si rivelò essere un forziere talmente pesante da non riuscire a sollevarlo. Ted allora ricoprì il forziere, nel timore che qualcuno potesse scoprirlo e tornò la sera dopo e per molte altre sere finché riuscì a trasportare tutte le monete d’oro a casa sua. Una volta messo al sicuro il tesoro, tornò nel bosco e, incurante della promessa fatta, riprese ad abbattere gli alberi.

Una mattina però il vecchio si accorse che le monete si erano trasformate in pietre prive di valore. In preda alla rabbia urlò «Puk! Maledetto folletto! Dove sei? Mi hai ingannato. Il tesoro non esiste! Mi sono rotto la schiena per portare qui tutti questi sassi!»

Puk apparve dal nulla «Il tesoro è parte della foresta ed è lì che deve restare. Per questo le monete si sono trasformate»

«Mi stai dicendo che il tesoro resta tale solo nel bosco?»

«Proprio così. Si tratta di un tesoro magico. Se distruggi il bosco, distruggerai anche il tesoro»

«Mi hai ingannato»

«Ti sbagli. Il patto prevedeva che io ti svelassi il luogo dov’era sepolto il tesoro e che tu, in cambio, smettessi di tagliare gli alberi del bosco. Sei tu che non hai rispettato il nostro accordo»

Carter maledì il folletto e riportò le monete nel bosco dove tornarono a splendere ma, avendo ormai sviluppato una dipendenza ossessiva per quel tesoro, non riuscì a separarsene e rimase nella foresta, dove poco tempo dopo lo trovarono morto.

Ogni tanto capita ancora che qualche passante riferisca di aver visto una strana creatura con un abito scarlatto e un berretto verde a sonagli danzare nel bosco, mentre poco lontano il Diavolo trasporta l’anima del vecchio Carter all’Inferno.

I vuoti d’autunno
 

Durante il mese di ottobre, a Guffermere, quasi all’unisono, foglie e abitanti precipitavano. Le prime al suolo, i secondi in un peculiare stato psicofisico: tutti gli adulti del villaggio, infatti, con l’avanzare della nebbia divenivano più burberi e violenti; i loro corpi, irrobustiti dal freddo, più tozzi. I ragazzi, invece, da zero a sedici anni sembravano essere vaccinati contro quel ruvido potere autunnale. D’altra parte, non erano affatto immuni agli adulti ottobrini. In autunno, non conveniva essere bambini. Non a Guffermere.

La cittadina era un mini agglomerato di ciottoli e case, incastonato tra le alture del Vermont. Una macchia ocra nel verde sconfinato, un neo cucito male sulla bellezza della natura. L’autunno era solito celare quel piccolo imbarazzo tra i boschi, macchiando tutto il resto con un arancio spento.

Le cose cambiarono quando, un ottobre di chissà quale anno, due amici per la pelle decisero di ribellarsi ai grandi. Petrus e Gamius, dodici e tredici anni, erano soliti incontrarsi in una cantina sotterranea nascosta tra i cespugli, scoperta per caso la scorsa estate, per mostrarsi a vicenda le ferite autunnali. Quando Gamius esibì all’amico le tre lingue rosse e pulsanti sulla zona lombare, firmate dalla cinghia del padre, i due decisero di movimentare un po’ le cose a Guffermere. La sera stessa, col favore della nebbia, i due ragazzini ricoprirono l’intero villaggio di terriccio putrido ed escrementi. Il fetore del giorno dopo rese gli adulti, se possibile, ancor più violenti del solito e, in brevissimo tempo, il rifugio divenne il ritrovo di tredici bambini intenti a scrollarsi la paura di dosso. Quell’ottobre si coprì di vecchi lividi e di scherzi nuovi di zecca, brevettati non appena la nebbia iniziava a vestire i vicoli di Guffermere; dai pomodori spiaccicati sulle porte ai cadaveri di tassi e marmotte lasciati sugli usci, passando per gli escrementi nascosti in ogni dove. Nessuno riuscì ad acciuffare un solo piccolo mascalzone, scomparivano nella nebbia sempre un attimo prima di essere scorti. Qualcuno giurò di averli visti danzare nella foschia, ombre impercettibili che ridacchiavano nelle notti d’ottobre. Il vuoto che si lasciavano dietro ogni volta valse loro l’appellativo di “Hollow Teens”. Una vecchia burbera dai capelli bianchi e sottili di nome Elaine, una sera, lasciò un sacchetto colmo di dolci fuori il suo portone nella speranza di adescarli, ma il mattino seguente il porticato era immacolato da scherzi e leccornie. L’anziana si lasciò andare a un inedito sorriso autunnale. La voce si sparse rapida e tutti gli adulti di Guffermere seguirono l’esempio di Elaine. Gli scherzi continuarono a perseguitare soltanto i taccagni e gli smemorati che non regalavano caramelle alla notte.

«Scusami» esordì Gamius, quattro anni più tardi, entrando nel rifugio con una strana luce negli occhi che si specchiò nelle iridi blu del suo migliore amico. Petrus e gli altri rimasero immobili, mentre una dozzina di mani adulte si materializzavano da ogni angolo oscuro della stanza. Gamius, unico sopravvissuto, quel giorno di fine ottobre compiva diciassette anni. Da allora, ogni trentuno di quel maledetto mese, le risate degli Hollow Teens continuarono a riecheggiare nella nebbia fitta di Guffermere. Nessun dolce riuscì mai più a placarle.

I secoli, si sa, sporcano le storie eppure ancora oggi il tradimento di Gamius viene ricordato ogni anno da milioni di bambini che, inconsapevoli, celebrano Petrus e la sua banda in quello che un tempo molto lontano era solo il giorno degli Hollow Teens.

Falso d'autore

Viene proposto l'estratto di un romanzo famoso, l'esercizio consiste nello riscriverlo convertendolo in un genere letterario diverso dall'originale e in un tempo specifico

  • Genere in cui convertirlo: Gotico
  • Periodo storico da usare: Futuro

Madame Bovary
 
Charles salì al primo piano per visitare il malato. Era a letto, sotto le coperte, sudato, e aveva scaraventato lontano il berretto da notte. Era un ometto tarchiato, di cinquant’anni, con la pelle bianca e gli occhi azzurri, calvo sopra la fronte e con gli orecchini. Aveva accanto a sé, su una seggiola, una grande bottiglia di acquavite dalla quale attingeva di tanto in tanto per farsi coraggio; ma appena vide il medico, la sua eccitazione cadde e, invece di bestemmiare come aveva continuato a fare per dodici ore, si mise a gemere debolmente .
La frattura era semplice e senza alcuna complicazione. Charles non avrebbe potuto augurarsi un caso più facile.
Allora, ricordando l’atteggiamento dei suoi maestri accanto al letto dei feriti, cercò di confortare il paziente con ogni sorta di buone parole, carezze chirurgiche che sono come l’olio per ingrassare il bisturi.
Per procurarsi delle stecche, andarono a prendere un fascio di assicelle, nella rimessa.
Charles ne scelse una, la spaccò per il lungo e ne tolse le asperità con un pezzo di vetro, mentre la domestica stracciava lenzuola per ricavarne bende e la signorina Emma si dava da fare per confezionare cuscinetti.
Le occorse parecchio tempo per trovare l’astuccio da lavoro, e suo padre finì con lo spazientirsi: ella non rispose, ma cucendo si pungeva le dita e le portava alla bocca per succhiarsele .
Charles rimase colpito dal candore delle sue unghie. Erano lucide, appuntite, più levigate degli avori di Dieppe, e fatte a mandorla. La mano tuttavia non era altrettanto bella, non abbastanza bianca, forse, e aveva le falangi un po’ nodose; era inoltre troppo lunga e priva di morbidezza nella linea del contorno.
Emma aveva bellissimi gli occhi: benché fossero bruni, sembravano neri per via delle ciglia, e guardavano tutto francamente con un candido ardire .
Terminata la medicazione, il medico fu invitato dallo stesso signor Rouault a mangiare un boccone prima di andarsene .
Charles discese nella sala a pianterreno. Due coperti con bicchieri d’argento erano preparati su una piccola tavola posta ai piedi di un vasto letto a baldacchino rivestito di tela stampata con figure di turchi.
Un odore d’iris e di panni umidi filtrava dal grande armadio in legno di quercia situato di fronte la finestra. In terra, negli angoli, stavano allineati, ritti, alcuni sacchi di grano. Costituivano quanto era avanzato dopo avere riempito il granaio vicino, al quale si accedeva per mezzo di tre gradini di pietra. Attaccato a un chiodo, in mezzo a una parete verde la cui vernice si staccava sotto l’azione del salnitro, per decorare la stanza, v’era, in una cornice dorata, il disegno a matita nera di una testa di Minerva sotto il quale si leggeva in caratteri gotici: Al mio caro papà .
Parlarono dapprima del malato, poi del tempo, del freddo terribile, dei lupi che infestavano i campi di notte.
 

Charles passò sotto la volta germicida, ed appena in casa indossò lo scafandro, come era ormai consuetudine al decimo anno di pandemia.

 Il malato era a letto, sotto le coperte, sudato, con la mascherina, ma aveva gettato via il caschetto con visiera.

Era un ometto tarchiato, di cinquant’anni, con la pelle bianca e gli occhi azzurri, calvo. Aveva accanto a sé, su una sedia, una grande bottiglia dalla quale attingeva aminoacidi liquidi per riequilibrare il suo corpo; appena vide il medico, la sua eccitazione crebbe e, cominciò a guardarlo con uno strano sorriso, a metà tra lo sgomento e l’ansia, gemendo debolmente.

La frattura era semplice e senza complicazione. Charles non avrebbe potuto augurarsi un caso più facile.

Allora, ricordando le lezioni in Dad sull’atteggiamento da tenere con i feriti,

cercò di confortare il paziente con parole di conforto.

Prese il pc, lo collegò alla stampante 3d e inviò allo studio i dati, per ottenere tutto il necessario per la fasciatura.

Mentre la stampante lavorava, guardò la domestica che preparava comunque le bende mentre la signorina Emma confezionava degli strani sacchi.

Era strano vederla sferruzzare, come da anni ormai non si usava più.

Suo padre finì con lo spazientirsi: ella non rispose, ma quando cucendo si pungeva le

dita, le portava alla bocca per succhiarsele, con una foga che raggelava Charles.  .

Questi rimase però colpito dal candore delle sue unghie. Lucide, appuntite, levigate, bellissime.

La mano non era altrettanto bella, non abbastanza bianca, forse, e aveva le falangi un po’ nodose; era inoltre troppo lunga e priva di morbidezza nella linea del contorno.

Emma aveva bellissimi gli occhi: benché fossero bruni, sembravano neri

per via delle ciglia, però guardavano tutto in maniera fredda trasmettendo un senso di assenza.

Terminata la medicazione, il medico fu invitato dallo stesso signor

Rouault a mangiare un boccone prima di andarsene .

Charles accettò e, dopo la nuova doccia chimica germicida, entrò nella sala a pianterreno. Due coperti con bicchieri d’argento erano preparati su una piccola tavola posta ai piedi di un

vasto letto , che aveva dietro una parete addobbata con strane stampe.

Un odore greve e forte filtrava dal grande armadio in legno di

quercia situato di fronte la finestra. In terra, negli angoli, stavano

allineati, ritti, alcuni sacchi da grano. Dovevano contenere il frutto del raccolto della campagna che circondava la tenuta, ma avevano una forma strana e anche da loro si spandeva nella stanza un tanfo terribile.

Charles vi si avvicinò, fino a leggere l’etichetta su cui vi era scritto in caratteri gotici: Al mio caro papà.

Si avvicinò ancora, ed inorridito potè intuire attraverso la tela del sacco il viso del medico condotto che lo aveva preceduto.

Improvvisamente Emma entrò, chiedendogli, impassibile, del malato e del freddo terribile di quella notte.

Charles indossò la tuta anticontaminazione e scese nei sotterranei per visitare il malato.

Era rannicchiato a letto. Il suo corpo era ormai ridotto a una piaga purulenta e maleodorante. Le ossa si stavano decalcificando provocando dolorose fratture ovunque. Non c’era più traccia della sua pelle bianca. Solo gli occhi erano rimasti dell’azzurro originario e rivelavano chi era stato.

Aveva accanto a sé, su una seggiola, delle fiale di morfina che assumeva di tanto in tanto per tenere a bada il dolore e farsi coraggio; ma appena vide il medico, la sua eccitazione cadde e, invece di zillare come aveva continuato a fare per dodici ore, si mise a gemere debolmente.

Il caso era senza speranza e Charles sapeva che non c’era più nulla da fare.

Allora, ricordandosi l’atteggiamento dei suoi maestri accanto al letto dei moribondi, cercò di confortare il paziente con ogni sorta di buone parole, pur sapendo che a breve la trasformazione sarebbe stata completa.

Non c’erano rimedi per quel virus che incancreniva i corpi, trasformandoli in orrende larve da cui sarebbero nati raccapriccianti mostri per metà uomini e per metà locuste. 

Ciononostante non poteva abbandonarlo e cominciò a preparare un unguento da spalmare sulle piaghe per lenire il dolore, mentre la domestica stracciava lenzuola per ricavarne bende e la signorina Emma si dava da fare arrotolandole.

Le occorse parecchio tempo per arrotolarle tutte e suo padre finì con lo spazientirsi: ella non rispose e continuò con garbo il suo lavoro.

Charles rimase colpito dall’eleganza dei suoi movimenti, appena impacciati dalla tuta e dal modo leggiadro in cui si muoveva.

Attraverso il casco poteva vederla in viso. Emma aveva bellissimi gli occhi: benché fossero bruni, sembravano neri per via delle ciglia, e guardavano tutto quell’orrore con un candido ardire .

Terminata la medicazione, il medico fu invitato dallo stesso signor Rouault a mangiare un boccone prima di andarsene.

Charles si sfilò la tuta e passò tra gli ugelli che spruzzavano spray disinfettante, prima di risalire in superficie dove lo attendeva lo Shweeb che lo avrebbe condotto dal suo ospite.

Due coperti con bicchieri d’argento erano preparati su una lunga tavola posta sotto un letto sospeso, rivestito di una pellicola di plastica bianca.

Un forte odore di disinfettante impregnava l’aria.

Per terra, negli angoli, erano disposti vaporizzatori che diffondevano nell’aria sostanze purificanti.

Attaccato a un chiodo, in mezzo a una parete resa lucida dallo sfregamento continuo, v’era, in una cornice in grafene, il disegno a matita nera di una testa di Medusa sotto alla quale si leggeva in caratteri gotici: Al mio caro papà.

Parlarono dapprima del malato, di com’era prima che il virus lo colpisse e dell’orribile metamorfosi che stava subendo; poi passarono al tempo, al freddo terribile e ai mutanti che ormai infestavano i campi di notte.

Charles salì all’ultimo piano della cattedrale per visitare l’esemplare. Era in cima alla guglia, immobile, accovacciato su un ginocchio.  Era un possente gargoyle, tra gli ultimi della sua specie, con la pelle di un viola pallido e le iridi ocra, i radi peletti sul capo, un tempo, erano stati una folta chioma di pece. Aveva tra le mani un grosso volume, impolverato come lui; non appena vide l’androide, la sua evidente paralisi vacillò e, invece di gemere come aveva  continuato a fare per ore, volse il capo lentamente verso il medico di latta. La paresi era parziale ma degenerativa. Charles non  avrebbe potuto immaginarsi un caso più complesso. Allora, sintonizzando il chip della memoria sul 2939, anno dell’immatricolazione, cercò di addomesticare il paziente con ogni parola in gargoyano antico che ricordasse,  carezze mediche che sono come l’olio per ingrassare gli ingranaggi. Per procurarsi l’elisir, andarono a prelevare il sangue di Gregor, nella cripta. Charles sollevò il braccio sinistro del cadavere, tagliò la vena in verticale con  un pezzo di vetro, mentre la sua aiutante umanoide teneva l’ampolla, pronta a raccogliere l’insperato liquido miracoloso e la serva Emma, umana anch’essa, si dava da fare per compiacere Charles. Le occorse parecchio tempo per trovare le parole adatte, e il cyborg  finì con lo spazientirsi: ella non rispose, ma balbettando si inumidiva le labbra che brillavano nel buio dell’antro. Charles rimase colpito dal candore del suo sorriso. Era timoroso, tanto curvo da sembrare finto. I seni, se possibile, erano altrettanto belli. Non abbastanza grandi, forse, ma turgidi sotto le vesti acriliche. Emma aveva gli occhi cupi: benché fossero blu notte, sembravano neri  per via della tristezza, e guardavano tutto svogliatamente con un peso nel cuore. Una volta versato l’elisir sulle irte estremità delle ali, il gargoyle spalancò le fauci e stacco di netto il braccio meccanico di Charles. Due fili  d’argento penzolavano dal moncherino del robot che, indietreggiando, cadde dal campanile e si unì alle migliaia di gocce del temporale che imperversava, da settimane, sulla metropoli. Un odore di metallo e di vetro bagnato filtrava dall’enorme rosone della cattedrale. In terra, sparpagliati, stavano gli occhi, le falangi e il busto di Charles. Costituivano quanto era  avanzato dopo l’impatto con l’asfalto. La testa giaceva poco lontano, in una pozzanghera di fango acido. In cima alla guglia, in mezzo al nero della notte, quasi a decorare il paesaggio, v’era, in una cornice di fulmini e lampi, l’ocra scintillante e sorridente degli occhi del gargoyle che sussurrò alle tenebre:
A Gregor, primo della nostra specie, e di quella che verrà. Spiegò le ali, coprendo la fetta di luna alle sue spalle, e danzò alto nel cielo, viola come il suo corpo coriaceo, fino a quando non si poté più distinguere l’uno dall’altro.

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